PER CHI SUONA LA CAMPANA - P7

 

Il battesimo c’era stato, ma le celebrazioni non erano finite. Non era stato facile portare la Campana sul torrione, che sembrava dover essere la sua sistemazione definitiva, ma ora bisognava pensare all’ultimo rito, fissato per il 4 ottobre 1925. Tra gli invitati c’era anche il re d’Italia, Vittorio Emanuele III, che pochi giorni prima chiese di rimandare l’impegno. «La data la fissai in onore di S. Francesco, il Santo della fratellanza universale, preferisco rinunziare… piuttosto che trasportare questa data altamente significativa» rispose don Rossaro al prefetto Guadagnini che aveva avanzato la richiesta per conto del sovrano. Il re rimase male, ma mantenne la parola data. L’episodio rimase confidenziale e non incise sull’accoglienza ricevuta dal sovrano, atteso in città da rappresentanti di nazioni estere, da tutte le madrine, da membri delle istituzioni civili e militari e da una folta schiera di fascisti. Dopo il discorso di don Rossaro, che riassumeva il faticoso percorso che aveva portato a quel momento, intervenne un rappresentante della «Croce Nera» dell’Austria Superiore invocando l’eterna Pace sopra tutti i caduti, che «opposti doveri schierarono un giorno nemici in campo, ma oggi pia fraternità di armi cristianamente, italianamente, insieme accoglie». Sembrava che alla riconciliazione di don Rossaro, avvenuta nella Cripta dei Cappuccini a Vienna, ora seguisse quella del secolare nemico.

Forse qualcosa stava accadendo, forse Maria Dolens cominciava a dare i suoi frutti. Anche perché lo statuto della Campana (la Magna Charta, come la chiamerà don Rossaro) parlava chiaro. Il testo era stato elaborato pochi giorni prima, mentre gli uomini allestivano il torrione. La premessa parlava degli scopi umanitari che stavano alla base dell’iniziativa. Il primo articolo specificava che Maria Dolens era dedicata a «tutti» i caduti della Grande guerra mentre il secondo fissava la procedura: «La Campana dei caduti sarà suonata ogni sera all’Ora di notte, antica e gentile costumanza italica destinata al quotidiano culto dei trapassati».

Ormai tutto era pronto, era il momento più solenne. Al primo rintocco il re si irrigidì nel saluto militare, il generale Pecori Giraldi si rivolse al ministro Celesia chiedendo che don Rossaro fosse fatto commendatore. Ma il sacerdote non era contento: «Francamente il suono non era buono, - scrisse nel suo diario  - ad ogni rintocco passava il mio cuore, come una lama avvelenata. Non una gioia nella vita mi fu risparmiata dal veleno. Anche questa doveva essere avvelenata, e sereno, ma turbato, abbattuto ma forte, mentre tutti applaudivano pensavo: “la rifonderò”».

 

 

STORIE DI TRENTINI NEL MONDO
L’ESPERIENZA DI LUCIA LARENTIS FLAIM TRA LE DONNE EMIGRATE

 

Abbiamo chiesto ad alcuni discendenti di trentini emigrati di raccontare le loro storie in prima persona, ponendo l’accento su quanto la loro origine li abbia indirizzati e influenzati nella vita. Questo non sarebbe stato possibile senza l’attiva e amichevole collaborazione dell’Associazione Trentini nel Mondo, nata nel 1957 con finalità di solidarietà sociale e come strumento di aggregazione e assistenza per i migranti trentini e per i loro discendenti. Il personaggio da scoprire questo mese è l’attivista sociale trentina Lucia Larentis Flaim, in Canada dal 1970.

Ho scoperto l’emigrazione verificando in prima persona la veridicità del detto popolare «dove c’è Gigi c’è Parigi». Nell’agosto 1969, all’età di 25 anni, testimone al matrimonio di una cara amica a Revò, conobbi un suo cugino in ferie nel suo paese natale dopo sei anni di Canada. Che mi capitò di cadere come una pera cotta è dir poco! Lui rientrò a Toronto iniziando una corrispondenza giornaliera che durò fino al successivo aprile quando tornò in Trentino: ho sposato Thomas Flaim il 24 maggio 1970. Siamo arrivati a Toronto dopo il viaggio di nozze giù e su per l’Italia, che mio marito non conosceva affatto.

Ognuna di noi ha fatto tutto il possibile per alleviare le sofferenze dei bisognosi

A mia volta venni “scoperta” dai Trentini di Toronto nell’estate del 1972 quando l’allora arcivescovo di Trento, monsignor Alessandro Maria Gottardi, venne in Canada in visita pastorale e a Toronto fece tappa anche presso il Centro Organizzativo Scuole Tecniche Italiano (Costi), dove lavoravo, e che era stato co-fondato dall’ingegnere Trentino Lino Magagna.

I soci del Club che lo accompagnavano, riconobbero la “Trentinità” del cognome Flaim e dopo alcuni contatti iniziai a collaborare con loro. Così aiutavo anche mio marito a conoscere la comunità Trentina a lui sconosciuta, perché completamente immerso in quella Canadese per il suo lavoro di cuoco.

Morale della favola? Fui la prima donna a entrare nel Direttivo del Club dove cambiavo ruolo a seconda delle necessità e in base a quanto ero in grado di fare: da segretaria verbalizzante alle relazioni esterne ai rapporti con la Provincia autonoma di Trento e la Trentini nel mondo, fino alle pubbliche relazioni e così via. Del Club sono stata anche presidente, dal 2004 al 2012. E dal 1984 al 2018 ho fatto parte della Consulta provinciale dell’emigrazione.

Nel frattempo avevo cominciato a lavorare presso la Ryerson University e la famiglia era cresciuta con Roger, Nadia ed Eric che, pur nascendo a Toronto, venivano portati a Trento - la città dove sono nata - per essere battezzati nella chiesa di San Pietro, la stessa dove ci eravamo sposati.

Nel 1982 quando fu la volta di Toronto di ospitare la Convention dell’Ittona (la federazione che riunisce i circoli Trentini degli Stati Uniti e del Canada) manifestazione che si svolge ogni due anni, vincendo le iniziali perplessità di chi considerava troppo nuove, progressiste e innovative le mie idee, convinsi gli organizzatori che sarebbe stato opportuno far diventare la Convention un’occasione per fare un tuffo nel Trentino contemporaneo, che era cambiato dai tempi dell’emigrazione verso il Nord America. Nel programma dell’iniziativa, accanto ai tradizionali momenti di festa e convivialità, furono così inserite le mostre del libro Trentino, dell’artigianato, delle fotografie di Flavio Faganello e un’esibizione del Coro della Sat, tutte proposte che l’allora presidente della Provincia autonoma di Trento, Flavio Mengoni, approvò e sostenne.

Sono diventata una brava Canadese perché ero stata una brava Trentina

In quegli stessi giorni ci fu anche un evento che ricordo con grande gioia: il Coro della SAT si esibì a Ottawa, alla presenza del Primo Ministro Canadese dell’epoca, Pierre Elliott Trudeau, che espresse grandi apprezzamenti per come fu eseguito l’inno nazionale Canadese.

Due anni dopo, alla Convention Ittona di Chicago, la formula fu riproposta e questo accadde anche nelle edizioni successive. Quando nel 2010 la Convention tornò a Toronto, lo scrittore Alberto Folgheraiter presentò il suo libro in inglese, Beyond the threshold of time e ci furono vari workshop, tra i quali spiccava quello sul volontariato, arricchito dall’entusiasmo delle nuove generazioni di imparare cultura e radici Trentine.

Intanto, meditavo su cosa fare per le donne Trentine e appoggiata da Gino Osti, a quel tempo presidente del Club, e stuzzicata da loro stesse quando ci si incontrava a qualche festa, nel novembre 1983 fondai il Gruppo Femminile Trentino. Tale iniziativa portò le donne a essere consapevoli del loro valore e delle loro capacità passate e future, a occuparsi del prossimo e a capire che ogni esperienza, per negativa che potesse essere, valeva quanto una lezione di vita da cui imparare. La loro mente si aprì a una visuale tale che il motto «una per tutte, tutte per una» faceva loro apprezzare il valore di fare Gruppo. È stato così che incontri con esperti, riunioni sociali, le tombolate, gli spettacoli teatrali, le riunioni per cucire quilt (le tipiche coperte trapuntate canadesi), le cene potluck nel corso delle quali ognuno porta del cibo da condividere con gli altri partecipanti, le gite alla scoperta dell’Ontario e di Toronto e una memorabile a Trento, e le varie opere di beneficenza, vivacizzarono non solo la comunità Trentina ma portarono un certo lustro al nostro Gruppo. Si iniziò col sostenere i quattro anni di università di uno studente argentino, poi ci fu la costruzione di un villaggio con casette e pozzi nel Kerala in India e in seguito l’appoggio alla Kidney Foundation of Canada per il campeggio estivo per bimbi con malattie renali e per quello dei bimbi affetti da problemi al cuore del Sick Kids Hospital a Toronto.

Non ho una lista completa di quanto fatto, che sarebbe lunghissima, so solo che ognuna di noi ha fatto il meglio possibile per alleviare le sofferenze dei bisognosi.

Allo stesso tempo il mio motto era “vi aiuto ad aiutarvi” e mi sentivo contenta nel constatare quanto tutte insieme si era cresciute in maturità, fiducia e consapevolezza. Inoltre, abbiamo sempre preferito “dare” puntando ad avere qualche ricaduta di cui sentirsi soddisfatte, evitando di contribuire solo con denaro, con il rischio che poi finisse nel classico calderone. Tra i tanti episodi, ne ricordo uno con tanta simpatia. Il terremoto in Abruzzo suscitò grande commozione e notammo che i Vigili del Fuoco di Trento e provincia furono tra i primi a correre in aiuto e così il nostro contributo andò a sostegno del loro campeggio estivo in Trentino, al quale presero parte anche alcune giovani ragazze abruzzesi.

Adesso noi, Donne Trentine a Toronto, saremo magari solo due dozzine, alcune col bastone, altre impossibilitate a spostarsi ma continuiamo a fare il nostro dovere per la Kidney Foundation e il Sick Kids Hospital, trovandoci il pomeriggio invece che la sera, perché è più facile guidare l’automobile di giorno. Probabilmente il Gruppo, lo dico con tanta serenità, morirà di morte naturale perché non sono riuscita a fare il passaggio generazionale, perché la società, la scienza e la tecnologia hanno fatto passi da gigante, ma a volte lasciando senza guida chi avrebbe avuto bisogno di rapporti interpersonali e comunitari.

Chiudo dicendomi che in quanto ho scritto finora ho parlato solo di cose avvenute e non di sentimenti, sconfitte, conquiste, sensazioni, sogni, dubbi, ma con la convinzione più profonda che sono diventata una brava Canadese perché ero stata una brava Trentina.

Lucia Larentis Flaim

Lucia Larentis Flaim con la sua famiglia

Il Gruppo Femminile Trentino nel 2012

L’accostamento potrà sembrare irrituale, non da ultimo per provenire dal responsabile di una Fondazione che ha la finalità di diffondere, in senso lato, i valori della Pace e della armoniosa convivenza fra popoli e nazioni, ma se oggi mi fosse chiesto di identificare due temi ai quali strettamente collegare i futuri destini dell’Europa, la mia scelta cadrebbe su “ambiente” e “difesa”.

Nel primo settore, l’obiettivo è quello di azzerare entro il 2050, realizzando in tal modo gli impegni assunti con lo storico Accordo sottoscritto nel 2015 a Parigi, le cosiddette emissioni di gas a effetto serra, garantendo in tal modo la neutralità climatica (“net zero”), attraverso il perfetto pareggio fra le emissioni di nuovo corso e l’assorbimento delle esistenti.

Nel secondo si tratta invece di raggiungere sul piano militare, senza fughe in avanti ma al tempo stesso senza eccessive dilazioni, quell’autonomia operativa che permetta ai governi del Vecchio Continente di proteggere in maniera efficace i propri confini (e, quello che più conta, le esistenze e gli acquis materiali e valoriali dei propri cittadini) senza dover, per questo, necessariamente dipendere da aiuti esterni (fatto ovviamente salvo, per gli Stati che vi aderiscono, ”l’ombrello” garantito dall’Alleanza Atlantica).

Sempre a giudizio di chi scrive, se gli obiettivi da raggiungere per trasmettere alle future generazioni condizioni di vita almeno equivalenti alle nostre sembrano sufficientemente chiari, appare decisamente più complesso identificare il “dosaggio” di misure pubbliche in grado di garantirne il raggiungimento, in particolare sul piano della loro accettabilità, sia a livello di comunità che di gruppi di interesse costituiti.

Prendiamo la lotta al riscaldamento climatico: il cosiddetto green deal non può essere concretamente raggiunto senza l’imposizione di restrizioni a carico di categorie di imprese le cui produzioni derivano da processi fortemente “inquinanti”. E non è un caso che il Parlamento europeo, non insensibile agli umori del proprio corpo elettorale e meno che mai alla vigilia di un fondamentale appuntamento con le urne, abbia di recente allentato norme comunitarie (ad esempio in materia di pesticidi, allevamento e imballaggi) la cui originaria maggiore severità intendeva esattamente accelerare la transizione verde. Si è poi scoperto, forse un po’ tardivamente, che una volta tradotte in pratica esse avrebbero causato nella grande maggioranza dei Paesi serissime conseguenze sul piano dell’occupazione. Così come non è sorprendente che la stessa presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, pur convinta sostenitrice del green deal, abbia nelle scorse settimane pubblicamente riconosciuto, proprio in nome di una Realpolitik difficile da accantonare definitivamente, la necessità di procedere in materia con maggiore cautela e gradualità.

Passando alla difesa europea, il principale ostacolo alla indispensabile razionalizzazione delle politiche fra i 27 è rappresentato dalla mancanza di cooperazione fra gli Stati membri dell’Unione, ognuno dei quali si ostina a privilegiare la via nazionale, incurante degli effetti perversi causati da costosissime, e spesso ridondanti, duplicazioni. Né sembra preoccupare più di tanto chi ci governa la constatazione che il 90 per cento delle risorse assegnate alla ricerca e allo sviluppo delle nuove tecnologie militari continuino a essere gestite dalle singole capitali, mentre al Fondo Europeo per la Difesa, istituito nel 2021, vengono allocati finanziamenti molto ridotti. Il recentissimo annuncio della presidente della Commissione favorevole alla creazione, in caso di propria rielezione, di un Ministero europeo della Difesa, potrebbe costituire, da questo punto di vista, una svolta nella giusta direzione.

Le indubbie oggettive difficoltà sopra tratteggiate non devono, peraltro, indurre le attuali dirigenze europee a rinunciare a obiettivi comunque improcrastinabili, pena il consistente ridimensionamento della autorevolezza del Vecchio Continente sullo scacchiere internazionale.

Né costituisce elemento trascurabile il fatto che le leadership in carica possano trarre il coraggio politico indispensabile alle riforme sopra evocate (in estrema sintesi, green deal ed esercito europeo) anche dalla accertata esistenza, fra i propri cittadini, di ampi margini di sostegno. Se l’appoggio plebiscitario di questi ultimi alle misure a favore dell’ambiente non ha bisogno di commenti, porta probabilmente con sé qualche elemento di sorpresa il risultato delle rilevazioni di Eurobarometro (agenzia collegata alla Commissione di Bruxelles) costanti nell’indicare come 4 cittadini europei su 5 si mantengano da alcuni anni favorevoli alla creazione di una politica europea di difesa e di sicurezza comune, solo ottenibile attraverso, per l’appunto, lo stretto coordinamento fra i 27 Paesi Ue.

Su tale ampia adesione pesano innegabilmente anche i riflessi della attuale, drammatica situazione internazionale, caratterizzata dal contemporaneo svolgimento di due conflitti di grandi dimensioni (oltre che di durata indefinibile), dalla estrema aggressività di un regime (quello russo) che richiama alla memoria gli inquietanti decenni della “guerra fredda” e dalle sempre incombenti minacce del terrorismo fondamentalista (il recentissimo, criminale attentato a una sala concerti di Mosca ne costituisce la tragica prova provata). A tali fattori di preoccupazione potrebbe aggiungersi, nei prossimi mesi, il cambio di inquilino alla Casa Bianca (vedasi precedente numero della «Voce»), verosimilmente accompagnato da una profonda revisione delle priorità internazionali dell’Uncle Sam, con la regione indo-pacifica a scavalcare, sul piano della rilevanza, il versante euro-atlantico.

In conclusione, di evidenze concrete sul tappeto così come di scenari di crisi ancora sotto controllo ma che potrebbero, prima o poi, sfuggire di mano (si pensi a Taiwan) ne esistono oggi più che in abbondanza. Anche sullo sfondo del cruciale appuntamento di giugno, l’Europa sarebbe pertanto bene avvisata a promuovere un serio esame di coscienza, al fine di identificare chiaramente le proprie priorità (su due delle quali ci siamo, seppur brevemente, sopra intrattenuti) e di trovare non solo il coraggio (ricordiamo la necessità di innovare rispetto al vigente sistema dell’unanimità nelle decisioni in materia di difesa) ma anche l’ambizione politica per attuare riforme di spessore. Come è giusto che sia, queste ultime dovranno essere sì rispettose dei diritti e degli interessi consolidati dei propri cittadini ma, al contempo, inflessibili nel respingere i tentativi di condizionamento in senso “conservativo” che le influenti e ramificate lobbies di potere attive in seno all’Unione non mancherebbero, senza dubbio alcuno, di mettere in atto.

 

Il Reggente, Marco Marsilli

 

PROTEZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI IN EUROPA

DI ROBERTO TONIATTI

 

Il 26 marzo scorso si è tenuta nella sede della Fondazione Campana dei Caduti una conferenza sulla Protezione dei diritti fondamentali in Europa tenuta da Roberto Toniatti, professore Emerito di Diritto Costituzionale Comparato presso l’Università degli Studi di Trento. Proponiamo di seguito stralci dal suo intervento.

La definizione e la tutela dei diritti fondamentali in Europa e nel mondo nascono nell’era della modernizzazione e risalgono, teoricamente, all’elaborazione del pensiero illuminista e, storicamente, alle grandi rivoluzioni inglese, statunitense e francese. Si tratta di un processo lungo e graduale, verosimilmente ancora in corso, che si sviluppa nel contesto del riconoscimento della libertà religiosa come funzione esclusiva dello Stato nazione, che - dal trattato di Westphalia (1648)  - è divenuto il modello di organizzazione del potere pubblico. Quest’ultimo acquisisce progressivamente la configurazione dello Stato liberale di diritto.

In particolare, a fronte della supremazia del Parlamento quale organo elettivo e rappresentativo e del primato della legge su ogni altra manifestazione di volontà dello Stato, il giudice si configura, secondo la nota definizione di Montesquieu, come «la bocca della legge», e, dunque, si concepisce l’interpretazione giudiziaria come un’attività di tipo sillogistico, rigorosamente non valutativa, espressiva esclusivamente della volontà del legislatore.

In sintesi, le originarie coordinate essenziali della tutela dei diritti fondamentali consistono, in primo luogo, nello stretto rapporto fra diritti fondamentali e sovranità nazionale dello Stato e, in secondo luogo, nella configurazione, del ruolo del giudice come strettamente applicativo della legge.

In Europa, entrambe le coordinate originarie hanno vissuto una determinante evoluzione, anche rispetto agli sviluppi planetari promossi dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, senza tuttavia acquisire una concezione autenticamente condivisa circa i diritti dell’Uomo e senza predisporre una sede per la tutela contro le violazioni dei diritti fondamentali degli individui. Anche a causa degli orrori patiti durante la seconda guerra mondiale, infatti, l’Europa ha compiuto scelte fondamentali proprie e alternative.

Nel 1949 è stato istituito il Consiglio d’Europa, con sede a Strasburgo e già nel 1950 è stata conclusa la Convenzione europea per la tutela delle libertà fondamentali e dei diritti dell’Uomo, il cui Preambolo qualifica, fra l’altro, «i governi firmatari, membri del Consiglio d’Europa [come] animati da uno stesso spirito e forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto». La Convenzione europea esprime, dunque, la constatazione dell’esistenza, nel presente e nell’immediato, di una concezione comune. Inoltre, istituisce una sede giurisdizionale permanente  - la Corte europea dei diritti dell’Uomo  - per la tutela di casi individuali e per l’adozione di sentenze di ripristino dei diritti violati e la sanzione degli Stati membri responsabili di tali violazioni. Si riconosce un diritto individuale di accesso alla Corte a ciascuna persona umana in quanto tale, a prescindere dalla titolarità della cittadinanza di uno Stato membro.

Una seconda prospettiva di protezione dei diritti fondamentali in Europa riguarda l’assetto vigente nell’Unione Europea. Si tratta di una prospettiva ancora più interessante e paradigmatica della civiltà liberale europea.

I trattati istitutivi delle Comunità europee, infatti, non intendevano attivare alcun meccanismo di tutela dei diritti fondamentali: il focus dell’integrazione sovranazionale era infatti circoscritto all’ambito funzionale dell’integrazione del mercato e, in quel contesto, l’espressione formale di “diritti fondamentali” si riferiva esclusivamente alle quattro libertà fondamentali di circolazione delle persone, dei capitali, delle merci e dei servizi. Con il progressivo consolidamento dell’esercizio della funzione di governo e dei poteri legislativo e amministrativo, si è specularmente consolidata, però, l’esigenza di una progressiva individuazione di limiti all’azione pubblica delle istituzioni comunitarie, tali limiti non potendo non includere, in primis, la tutela dei diritti fondamentali degli individui.

In assenza di norme esplicite nel testo dei trattati istitutivi, la Corte di Giustizia, con sede in Lussemburgo, si è trovata nella non agevole situazione di dover scegliere fra la mancata tutela dei diritti fondamentali ovvero fra la garanzia della tutela, ma previa individuazione del fondamento legislativo di riferimento. La Corte ha individuato tale fondamento sia nelle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, alle quali essa ha dichiarato di essere obbligata ad attenersi, sia nelle norme della Convenzione europea della quale tutti gli Stati membri erano parti contraenti. Entrambe le fonti sono state qualificate, nel silenzio dei testi, quali «principi generali» dell’ordinamento comunitario, ora dell’Unione europea. Solo nel 2000 è stata adottata a Nizza la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea la cui entrata in vigore come fonte di diritto costituzionale è avvenuta con il trattato di Lisbona nel 2007.

Sulla base di questo scenario di fondo, occorre osservare che la protezione dei diritti fondamentali in Europa si articola su tre ordinamenti: in primo luogo, l’ordinamento degli Stati membri, in base alla rispettiva Costituzione e leggi nazionali, sotto la garanzia della rispettiva giurisdizione e con la garanzia delle rispettive Corti supreme e del controllo di legittimità costituzionale delle leggi esercitata dalle rispettive Corti costituzionali; in secondo luogo, dall’ordinamento della Convenzione europea e con la garanzia della Corte europea, nei confronti delle violazioni poste in essere dagli Stati contraenti; in terzo luogo, dall’ordinamento dell’Unione europea, con la garanzia della Corte di Giustizia, nei confronti delle violazioni poste in essere dalle istituzioni dell’Ue e dagli Stati membri nel campo di applicazione del diritto dell’Ue.

Si tratta, pertanto, di un assetto delle fonti di “pluralismo costituzionale” e di “pluralismo giurisdizionale”, ossia della garanzia giurisdizionale articolata su tre ordini di Corti, ciascuna suprema nel proprio rispettivo ordinamento. Ne discende un problema di “definizione del rapporto” fra questi tre ordini di fonti del diritto e di garanzia giurisdizionale. Si tratta di un rapporto privo di una struttura gerarchica formale. Ciascun ordinamento e soprattutto ciascuna giurisdizione rivendica il proprio primato.

Il rapporto fra fonti e giurisdizioni è in realtà assicurato solo sul piano di fatto da una prassi che è stata qualificata come “dialogo fra i giudici”, ossia sulla “buona volontà” dei giudici nazionali, i quali sono orientati a dare alle fonti del diritto scritto un’interpretazione conforme alle fonti europee, e altresì dei giudici europei i quali tengono conto del diritto interno nell’interpretazione del diritto europeo. Il metodo del dialogo fra giudici (che può portare a una sorta di ping pong interpretativo fra l’una e l’altra corte) conduce a un accomodamento caso per caso.

In conclusione, si può affermare che la tutela dei diritti fondamentali è una «responsabilità condivisa» fra istituzioni europee e nazionali e che questo assetto realizza una forma sofisticata di «democrazia costituzionale europea».

 

 

In questo Numero

 

AMBIENTE E DIFESA
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LA PROTEZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI IN EUROPA. DI ROBERTO TONIATTI
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STORIE DI TRENTINI NEL MONDO
LUCIA LARENTIS FLAIM DA TRENTO A TORONTO
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PER CHI SUONA LA CAMPANA - P7
IL PRIMO RINTOCCO
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