Al Colle di Miravalle le due Bandiere hanno fatto la loro apparizione a quindici anni di distanza l’una dall’altra.

Per prima, nel 1975, quella dello Stato di Israele, in occasione di una cerimonia internazionale a ricordo dei Caduti di tutte le guerre. Per seconda, nel 1990, quella della Palestina, issata ufficialmente nel corso della visita dell’allora Ministro dell’omonima “Autorità”, Ziad Ali Khalil Abu Zayyad.

A partire da quelle date la Campana dei Caduti ha accolto delegazioni e ospitato eventi promossi da entrambe. Per ricordarne alcuni, una celebrazione di Yom HaShoah (con cui si onorano le vittime dell’olocausto) e un concerto della celebre cantante Noa dal lato israeliano e la visita del sindaco di Beit Jala, cittadina della Cisgiordania esempio di riuscita convivenza civile e religiosa, da quello palestinese.

Sarebbe ovviamente banale affermare che, in relazione alla nostra Fondazione, il tanto invocato principio dei «due Popoli e due Stati» abbia già trovato una forma di applicazione. Al tempo stesso, in un periodo in cui la tormentata area geografica è risultata per l’ennesima volta teatro di conflittualità tradottasi in un elevato numero di vittime, qualsiasi simbologia positiva, per quanto minore, può servire a contraddire il giudizio dello sconsolato diplomatico britannico secondo il quale «mai nella storia dell’umanità sono stati consacrati tanto tempo e tanto impegno a favore di un processo di Pace, ottenendo in cambio così pochi risultati».

Non è certamente questa la sede per affrontare la ricostruzione storica di decenni di conflitti armati, intervallati da numerosissimi tentativi di intermediazione delle Nazioni Unite e di altri organismi multilaterali, puntualmente vanificati da successivi scontri e violenze.

In sintesi, appare pienamente condivisibile la valutazione ancora recentemente ribadita dal presidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati, circa la estrema difficoltà di conciliare «due ragioni» e non, come avviene in altre situazioni di crisi, «una posizione giusta ed una sbagliata».

In questo secondo caso, le misure “correttive” della comunità internazionale si dirigerebbero infatti logicamente verso la parte in difetto, per indurla a recedere da comportamenti non accettabili.

Ma, in concreto, come contemperare il diritto di Israele di provvedere in modo rapido ed efficace alla sicurezza dei propri cittadini con il diritto del popolo palestinese a costituirsi in una entità statuale indipendente?

Due obiettivi, pienamente legittimi, resi oggi irrealizzabili da ostacoli pressoché insormontabili, da un lato lo statuto di Hamas contemplante la distruzione dello Stato ebraico e, dall’altro, le deliberate, massicce politiche di insediamento promosse da Tel Aviv in aree storicamente destinate al costituendo Stato palestinese.

All’inizio degli anni ‘90 con la Conferenza di Madrid e gli Accordi di Pace di Oslo, ratificati a Washington da Rabin ed Arafat sotto lo sguardo compiaciuto di Bill Clinton, l’aspirazione degli uni a vivere in sicurezza e degli altri a ottenere una patria erano sembrati più prossimi di sempre alla realizzazione. In retrospettiva, occorre ammettere essersi trattato più di una congiuntura di fattori favorevoli (ivi compreso l’aspetto interpersonale) che di una convinta condivisione di percorsi e di obiettivi. Oggi il governo israeliano, confrontato a quattro elezioni in due anni, è alla disperata ricerca di una stabilità, cui potrebbero auspicabilmente contribuire, all’interno della nuova variegata coalizione governativa, la presenza di un partito arabo e l’assenza di rappresentanti dei movimenti religiosi. Sul fronte opposto, preoccupazione desta il fatto che il declino del “moderato” Abu Mazen sia accompagnato dai crescenti consensi riportati, in particolare presso le giovani generazioni, dai messaggi di Hamas, dalla inequivocabile matrice terroristica.

Allo scopo di superare la presente impasse e di promuovere la necessaria stabilità si rende, gioco forza, necessaria una decisa e più ampia mobilitazione della comunità internazionale, in grado di coinvolgere non solo gli Stati Uniti ed i Paesi europei ma anche, per il tramite della Lega Araba, i Paesi dell’area. Attraverso i recenti “Accordi di Abramo” - uno dei pochi positivi lasciti dell’Amministrazione Trump - alcuni di essi (Emirati Arabi Uniti e Bahrein) hanno avviato relazioni formali con Israele, ma appare a questo punto indispensabile convincere della necessità di negoziati anche i sostenitori più radicali (in primis Iran, Arabia Saudita, Siria ed altri) della linea dell’ostracismo.

A quanto riportano le cronache dall’area, un ulteriore, piccolo segnale incoraggiante di disponibilità al dialogo sembra provenire proprio dal basso, dalle due collettività, attraverso l’apparizione, sempre più diffusa nei luoghi pubblici abitati da israeliani e da palestinesi, della scritta, in arabo e in ebraico, «possediamo solo questa casa, abitiamola insieme».

In attesa degli eventi, è certo che al Colle di Miravalle le Bandiere dello Stato di Israele e della Palestina continueranno a coabitare pacificamente. É nostro auspicio che i cento rintocchi giornalieri di “Maria Dolens” favoriscano il diffondersi anche su altri scenari geografici di tale rassicurante immagine di convivenza, contribuendo a far sì che l’eccezione di oggi divenga, il prima possibile, la regola di domani.

 

Il Reggente Marco Marsilli

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