ACCADE ALL’ONU
GIORNATA IN MEMORIA DELLE VITTIME DELLA SCHIAVITÙ

 

«Venghino signori, venghino. Giovedì 3 agosto, asta in piazza. Novantaquattro capi in piena salute appena scaricati da un cargo proveniente dalla Sierra Leone. Trentanove maschi adulti, ventiquattro femmine e trentuno giovani in età riproduttiva. Affrettatevi».

Non erano animali, erano «negroes». La differenza era poca. Una quindicina di giorni prima della svendita qualcuno affisse un manifesto che annunciava una giornata di mercato speciale a Charleston, nello Stato della Carolina del Sud. Un secolo e mezzo dopo, nel 1920, la città avrebbe dato il nome a un ballo inventato dagli scaricatori neri del porto, che più o meno riproducevano i movimenti che eseguivano per caricare e scaricare le merci dalle navi. Quei lavoratori probabilmente erano i pronipoti dei novantaquattro «capi» venduti al miglior offerente nel 1769.

All’asta degli schiavi devono essersi presentati in parecchi, perché conveniva. L’economia era fiorente, la mano d’opera quasi gratis, i rimorsi pochi. Per interrompere il commercio di uomini e donne strappati con la violenza alle loro terre ci sarebbero voluti altri cento anni, una guerra di secessione, il XIII emendamento, e un presidente negli Stati Uniti ucciso mentre guardava una commedia a teatro.

Oggi le svendite sono finite, il razzismo ancora no. Anche per questo la Giornata internazionale in memoria delle vittime della schiavitù e del commercio degli schiavi transatlantico, istituita dalle Nazioni Unite nel 2007 e celebrata ogni 25 marzo, più che un risarcimento storico sembra un invito a non dimenticare, più o meno il monito che Maria Dolens lancia ogni giorno con i suoi cento rintocchi di Pace.

Le conseguenze della più imponente migrazione forzata della storia sono ancora sotto i nostri occhi

Peraltro le conseguenze della più imponente migrazione forzata della storia sono ancora sotto i nostri occhi. Le leggi si approvano in un giorno, è bene farlo, ma per cambiare le mentalità ci vuole molto più tempo. Negli Stati Uniti la questione razziale è ancora aperta e nei bracci della morte difficilmente si incontra un bianco che non sia una guardia carceraria. L’abolizione della schiavitù non ha abolito la discriminazione. Per sedersi su un tram dove c’è un posto libero senza badare a chi è riservato le persone di colore hanno dovuto attendere il 1955 e il “no” di Rosa Park ad alzarsi di fronte a un bianco che aveva la “priorità”. E per arrivare fino ai giorni nostri basta chiedersi se senza la presenza degli smartphone l’assassinio di George Floyd sarebbe diventato un caso giuridico o sarebbe stato derubricato a incidente sul lavoro.

Anche in Africa, poi, gli effetti della tratta non sono ancora stati superati. Tra il 1600 e il 1900 la popolazione del continente è crollata in alcune zone fino al 30 per cento. La causa del calo demografico va attribuita alla deportazione degli schiavi e alle malattie, spesso d’importazione. Ma mentre i negrieri facevano razzie nei villaggi strappando alle loro famiglie ragazzi muscolosi e giovani donne da ammassare nelle stive, i principali Paesi europei si arricchivano a scapito dell’Africa, causando prima una decelerazione, poi un ristagno e, infine, l’arresto dell’economia di uno dei continenti potenzialmente più ricchi del mondo. Secondo Rahul Mehrotra, ricercatore al Graduate Institute di Ginevra, l’Africa perde ogni anno quasi 90 miliardi di dollari (75,8 miliardi di euro), soldi che, invece di essere spesi per l’istruzione, i servizi sanitari o l’economia in generale, finiscono per ingrossare i profitti delle multinazionali o conti correnti nei paradisi fiscali.

Un’emorragia di capitali che, secondo la denuncia contenuta in un rapporto della Conferenza delle Nazioni Unite sull’economia e lo sviluppo (Unctad), è pari alla somma degli investimenti diretti esteri e degli aiuti allo sviluppo che ogni anno arrivano nel continente. «I flussi finanziari illeciti sono un problema multidimensionale, ed è molto difficile stimarne l’entità.

Per questo la cifra reale potrebbe essere molto diversa», precisa Mehrotra sottolineando che «esiste un’intera industria di esperti in ottimizzazione fiscale che aiuta le imprese a strutturare il loro business in modo da pagare meno tasse possibili. In questo caso, molti si chiedono se siamo di fronte a evasione, quindi a un’attività illegale, o alla capacità di sfruttare le carenze legislative».

Secondo i calcoli dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) i meccanismi di elusione fiscale costano ai Paesi di tutto il mondo dai 100 ai 240 miliardi di dollari all’anno in mancate entrate, pari al 4-10 per cento delle tasse globali sul reddito d’impresa.

L’Unctad informa inoltre che 40 miliardi di dollari, circa il 45 per cento del totale dei flussi finanziari illeciti provenienti dall’Africa, sono riconducibili al commercio di materie prime, soprattutto di oro. Un’inchiesta della Reuters ha confermato come ogni anno «oro per un valore di svariati miliardi di dollari» venga esportato dal “continente nero” sfuggendo alle imposte dei Paesi produttori.

In questo modo secondo gli esperti arrivano in Occidente grossi capitali che potrebbero celare il trasferimento illecito di fondi, anche se, sottolinea ancora Mehrotra, «la mancanza di statistiche affidabili sulle transazioni rende difficile determinare se le discrepanze celino davvero un illecito e quale sia la sua entità».

Lo schiavismo è finito, la segregazione pure, la discriminazione quasi, i pregiudizi insomma, lo sfruttamento no.

«Venghino signori venghino».

Un piano per “stivare” gli schiavi durante il viaggio in nave dall’Africa all’America del Nord

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