L’accostamento potrà sembrare irrituale, non da ultimo per provenire dal responsabile di una Fondazione che ha la finalità di diffondere, in senso lato, i valori della Pace e della armoniosa convivenza fra popoli e nazioni, ma se oggi mi fosse chiesto di identificare due temi ai quali strettamente collegare i futuri destini dell’Europa, la mia scelta cadrebbe su “ambiente” e “difesa”.

Nel primo settore, l’obiettivo è quello di azzerare entro il 2050, realizzando in tal modo gli impegni assunti con lo storico Accordo sottoscritto nel 2015 a Parigi, le cosiddette emissioni di gas a effetto serra, garantendo in tal modo la neutralità climatica (“net zero”), attraverso il perfetto pareggio fra le emissioni di nuovo corso e l’assorbimento delle esistenti.

Nel secondo si tratta invece di raggiungere sul piano militare, senza fughe in avanti ma al tempo stesso senza eccessive dilazioni, quell’autonomia operativa che permetta ai governi del Vecchio Continente di proteggere in maniera efficace i propri confini (e, quello che più conta, le esistenze e gli acquis materiali e valoriali dei propri cittadini) senza dover, per questo, necessariamente dipendere da aiuti esterni (fatto ovviamente salvo, per gli Stati che vi aderiscono, ”l’ombrello” garantito dall’Alleanza Atlantica).

Sempre a giudizio di chi scrive, se gli obiettivi da raggiungere per trasmettere alle future generazioni condizioni di vita almeno equivalenti alle nostre sembrano sufficientemente chiari, appare decisamente più complesso identificare il “dosaggio” di misure pubbliche in grado di garantirne il raggiungimento, in particolare sul piano della loro accettabilità, sia a livello di comunità che di gruppi di interesse costituiti.

Prendiamo la lotta al riscaldamento climatico: il cosiddetto green deal non può essere concretamente raggiunto senza l’imposizione di restrizioni a carico di categorie di imprese le cui produzioni derivano da processi fortemente “inquinanti”. E non è un caso che il Parlamento europeo, non insensibile agli umori del proprio corpo elettorale e meno che mai alla vigilia di un fondamentale appuntamento con le urne, abbia di recente allentato norme comunitarie (ad esempio in materia di pesticidi, allevamento e imballaggi) la cui originaria maggiore severità intendeva esattamente accelerare la transizione verde. Si è poi scoperto, forse un po’ tardivamente, che una volta tradotte in pratica esse avrebbero causato nella grande maggioranza dei Paesi serissime conseguenze sul piano dell’occupazione. Così come non è sorprendente che la stessa presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, pur convinta sostenitrice del green deal, abbia nelle scorse settimane pubblicamente riconosciuto, proprio in nome di una Realpolitik difficile da accantonare definitivamente, la necessità di procedere in materia con maggiore cautela e gradualità.

Passando alla difesa europea, il principale ostacolo alla indispensabile razionalizzazione delle politiche fra i 27 è rappresentato dalla mancanza di cooperazione fra gli Stati membri dell’Unione, ognuno dei quali si ostina a privilegiare la via nazionale, incurante degli effetti perversi causati da costosissime, e spesso ridondanti, duplicazioni. Né sembra preoccupare più di tanto chi ci governa la constatazione che il 90 per cento delle risorse assegnate alla ricerca e allo sviluppo delle nuove tecnologie militari continuino a essere gestite dalle singole capitali, mentre al Fondo Europeo per la Difesa, istituito nel 2021, vengono allocati finanziamenti molto ridotti. Il recentissimo annuncio della presidente della Commissione favorevole alla creazione, in caso di propria rielezione, di un Ministero europeo della Difesa, potrebbe costituire, da questo punto di vista, una svolta nella giusta direzione.

Le indubbie oggettive difficoltà sopra tratteggiate non devono, peraltro, indurre le attuali dirigenze europee a rinunciare a obiettivi comunque improcrastinabili, pena il consistente ridimensionamento della autorevolezza del Vecchio Continente sullo scacchiere internazionale.

Né costituisce elemento trascurabile il fatto che le leadership in carica possano trarre il coraggio politico indispensabile alle riforme sopra evocate (in estrema sintesi, green deal ed esercito europeo) anche dalla accertata esistenza, fra i propri cittadini, di ampi margini di sostegno. Se l’appoggio plebiscitario di questi ultimi alle misure a favore dell’ambiente non ha bisogno di commenti, porta probabilmente con sé qualche elemento di sorpresa il risultato delle rilevazioni di Eurobarometro (agenzia collegata alla Commissione di Bruxelles) costanti nell’indicare come 4 cittadini europei su 5 si mantengano da alcuni anni favorevoli alla creazione di una politica europea di difesa e di sicurezza comune, solo ottenibile attraverso, per l’appunto, lo stretto coordinamento fra i 27 Paesi Ue.

Su tale ampia adesione pesano innegabilmente anche i riflessi della attuale, drammatica situazione internazionale, caratterizzata dal contemporaneo svolgimento di due conflitti di grandi dimensioni (oltre che di durata indefinibile), dalla estrema aggressività di un regime (quello russo) che richiama alla memoria gli inquietanti decenni della “guerra fredda” e dalle sempre incombenti minacce del terrorismo fondamentalista (il recentissimo, criminale attentato a una sala concerti di Mosca ne costituisce la tragica prova provata). A tali fattori di preoccupazione potrebbe aggiungersi, nei prossimi mesi, il cambio di inquilino alla Casa Bianca (vedasi precedente numero della «Voce»), verosimilmente accompagnato da una profonda revisione delle priorità internazionali dell’Uncle Sam, con la regione indo-pacifica a scavalcare, sul piano della rilevanza, il versante euro-atlantico.

In conclusione, di evidenze concrete sul tappeto così come di scenari di crisi ancora sotto controllo ma che potrebbero, prima o poi, sfuggire di mano (si pensi a Taiwan) ne esistono oggi più che in abbondanza. Anche sullo sfondo del cruciale appuntamento di giugno, l’Europa sarebbe pertanto bene avvisata a promuovere un serio esame di coscienza, al fine di identificare chiaramente le proprie priorità (su due delle quali ci siamo, seppur brevemente, sopra intrattenuti) e di trovare non solo il coraggio (ricordiamo la necessità di innovare rispetto al vigente sistema dell’unanimità nelle decisioni in materia di difesa) ma anche l’ambizione politica per attuare riforme di spessore. Come è giusto che sia, queste ultime dovranno essere sì rispettose dei diritti e degli interessi consolidati dei propri cittadini ma, al contempo, inflessibili nel respingere i tentativi di condizionamento in senso “conservativo” che le influenti e ramificate lobbies di potere attive in seno all’Unione non mancherebbero, senza dubbio alcuno, di mettere in atto.

 

Il Reggente, Marco Marsilli

 

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