ACCADE ALLE NAZIONI UNITE
GIORNATA MONDIALE DEI DIRITTI UMANI E MONDIALI IN QATAR

 

Sarebbe stato bello se avessero ammonito tutti i capitani di tutte le squadre di calcio che partecipano ai mondiali in Qatar perché indossavano la fascia arcobaleno. Sarebbe stato bello e invece ha prevalso la prudenza, che qualche volta si posiziona al confine con la codardia. Soprattutto per chi si può permettere di infrangere una norma ingiusta senza rischiare la vita sua o quella dei suoi familiari.

Per essere chiari: i giocatori dell’Iran che non cantano l’inno nazionale prima della partita mettono a rischio la propria esistenza, il futuro dei parenti, e quindi compiono un atto molto coraggioso. Se all’incontro successivo non se la sentono di rifarlo, se le minacce che arrivano da Teheran li convincono a tornare sui loro passi, non possono essere condannati. Essere eroi non è obbligatorio, hanno comunque compiuto un gesto importante che ha ricordato a tutti quello che sta accadendo nel loro Paese.

Ma se il capitano della Germania, dopo averlo sbandierato ai quattro venti, rinuncia a indossare la fascia arcobaleno con la quale intendeva protestare contro il mancato rispetto dei diritti umani nel Paese che ospita il torneo, la cosa è un po’ diversa. Cosa rischiava il campione? Un’ammonizione. E magari un’altra alla partita successiva che gli avrebbe precluso la possibilità di giocare per un turno. Sul piano sportivo è importante, anche grave, soprattutto per un atleta che si prepara per tutta la vita per quel momento. Ma quante coppe avrebbe meritato di alzare per un gesto così? Più di quante ne possa conquistare uno sportivo in una vita di successi. I gesti sono importanti, come le parole. È vero l’intera squadra della Germania si è tappata la bocca con la mano nella foto di rito prima della partita che ha inaugurato il suo percorso mondiale. Anche quella è una foto storica, ma ci si poteva aspettare qualcosa di più. Non solo da loro, anche da altri team, e soprattutto da chi organizza, la Fifa, che non solo ha concesso al Qatar di ospitare l’evento, ma ha anche minacciato sanzioni contro chi annunciava qualunque tipo di protesta in favore dei diritti umani.

I mondiali di calcio si svolgono senza particolari proteste in un Paese dove i diritti umani non sono garantiti a piano

Ci sono di mezzo tanti soldi, lo sappiamo, nessuno vuole rischiare ripercussioni, anche solo economiche, per un gesto simbolico. Ma non è andata sempre così. In passato qualcuno ci ha messo la faccia e ne ha pagato le conseguenze. Era Il 16 ottobre 1968, nello stadio di Città del Messico i velocisti statunitensi Tommie Smith e John Carlos arrivarono primo e terzo nella finale dei 200 metri alle Olimpiadi. Smith aveva stabilito il nuovo record del mondo, nonostante avesse un tendine ballerino e avesse corso gli ultimi 10 metri alzando le braccia. Carlos era arrivato dietro al connazionale e all’australiano Peter Norman. Gli statunitensi sono saliti sul podio per la premiazione, hanno ricevuto le medaglie che avevano meritato, hanno atteso l’inizio dell’inno nazionale, poi hanno abbassato la testa e alzato il pugno chiuso indossando dei guanti neri. Norman solidarizzò con i colleghi americani appuntandosi sul petto una spilla dell’Olympic Project for Human Rights, l’associazione che ispirò il gesto di Smith e Carlos. A qualche decina di metri di distanza il fotografo John Dominis scattò una foto che sarebbe diventata una delle più famose del Novecento, simbolo di un decennio di proteste per i diritti civili dei neri.

Queste cose hanno dei costi, umani e professionali. Il Comitato Olimpico Internazionale chiese subito l’esclusione di Smith e Carlos dal villaggio olimpico e la loro sospensione dalla squadra Usa. Al loro ritorno in patria i due subirono critiche, ricevettero minacce, intimidazioni e qualche riconoscimento dalla comunità che avevano rappresentato. Anche Norman fu minacciato e insultato una volta tornato in Australia, e secondo qualcuno venne escluso dalle Olimpiadi del 1972 a seguito di quell’episodio. Al suo funerale, nel 2006, Smith e Carlos trasportarono la sua bara sulle proprie spalle.

Dal 1968 sono trascorsi 54 anni, e ancora tutti sanno chi ha vinto la finale dei 200 metri, e anche chi è arrivato secondo e chi ha tagliato il traguardo per terzo. Tra 54 anni, nel 2076, chi si ricorderà di quanto è finita Spagna – Germania o di chi avrà alzato la coppa al termine della finale di quest’anno? La squadra che avrà vinto il mondiale in corso avrà compiuto una impresa sportiva, per un po’ sarà idolatrata, poi entrerà nella lista delle compagini che si sono aggiudicate il torneo per nazionali più importante che esista. Tocca a un team ogni quattro anni. È importantissimo, ma non quanto il gesto di Smith e Carlos.

Ai giochi olimpici del 1968 due velocisti statunitensi rivendicarono platealmente i diritti civili dei neri

Da un altro punto di vista è interessante notare che quest’anno, per la prima volta nella storia, la Giornata Mondiale dei Diritti Umani indetta dall’Onu si è svolta a mondiali di calcio in corso, il 10 dicembre. Sarebbe stato bello, tra una prodezza e l’altra, che persone di tutto il mondo, incontrandosi in un punto del pianeta, avessero goduto delle garanzie previste dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, firmata nel 1948, venti anni prima del gesto di Carlos e Smith. Non è andata così: ci sono degli umani ai quali non si applica il rispetto dei diritti umani. E pensare che il testo delle Nazioni Unite è disponibile in oltre 500 lingue, nessuno può far finta di non avere compreso quali sono i diritti inalienabili che tutti possiedono proprio in quanto esseri umani, senza distinzioni di razza, colore, religione, sesso, lingua, origine, nascita o opinioni di alcun genere.

La Dichiarazione, composta da un preambolo e 30 articoli, è stata scritta con la collaborazione di rappresentanti di ogni religione e tradizione legale, venendo globalmente accettata nel tempo come un “contratto” tra i governi e i cittadini del mondo. Tra le dichiarazioni e la loro applicazione, però, c’è una distanza che a volte sembra incolmabile. È certo però che i principi sono senza tempo, attuali oggi con sempre. Ma i valori cammino sulle spalle degli uomini. In molti se ne fanno carico, ma spesso non finiscono sui giornali, figuriamoci in mondovisione. Sarebbe stato bello che qualcuno li avesse considerati più importanti di un’ammonizione.

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