Praticamente nello stesso momento (décalage orario a parte) in cui il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella nel suo esemplare discorso di fine anno metteva in risalto, sul piano globale, i valori della Pace e della costruttiva interazione fra i popoli e le nazioni ed evidenziava, su quello interno, le sempre attuali tematiche della salute, del lavoro, dell’educazione, dell’uguaglianza dei diritti e del contrasto alla violenza di genere, altri Capi di Stato e di Governo, rappresentanti di regimi autoritari, delle cosiddette “demokrature” e di Paesi in stato di guerra, erano interessati a propagandare, nelle rispettive allocuzioni via etere, ben altri principi e ben differenti priorità di obiettivi.

In particolare quello della continuazione a oltranza dei conflitti in corso sino “alla totale distruzione” degli avversari è stato evocato pressoché all’unisono tanto dai presidenti Putin e Zelensky, in relazione alla guerra russo/ucraina ormai prossima al terzo anno di devastante esistenza, sia dalle leadership di Israele e di Hamas, impegnate dal 7 ottobre scorso in sanguinose operazioni militari, in cui - a testimonianza della barbarie delle stesse - il numero delle vittime civili supera, e di molto, quello dei combattenti.

Quanto precede rende, in entrambi i casi, praticamente impossibile una qualsiasi previsione temporale sulla durata delle ostilità, dal momento che “l’annientamento” del rivale rappresenta, per il suo carattere radicale, un risultato ben più complesso da raggiungere rispetto, poniamo, alla (ri)conquista di un territorio o anche al ridimensionamento politico/militare dell’esercito avversario. Come conseguenza inevitabile, tale inflessibilità non manca di espandersi a macchia d’olio, coinvolgendo altre aree già caratterizzate da forte instabilità, come è il caso dello Yemen, territorio dal quale i ribelli Houthi (con il sostegno degli ayatollah iraniani) stanno seriamente minacciando, con azioni terroristiche, la sicurezza della rotta marittima del Mar Rosso, essenziale per il commercio internazionale dei Paesi europei (e non solo).

Tra gli annunci non propriamente tranquillizzanti di questo inizio anno rientra a buon diritto anche quello del presidente cinese Xi Jinping, per i riferimenti - senza necessità di molti giri di parole - alla circostanza che la Cina sarà «sicuramente riunificata» e che Taiwan verrà «riportata sotto il controllo della madrepatria». Anche se già esplicitato in precedenti occasioni e pur se privo di riferimenti quanto a date di attuazione, si tratta comunque - e come tale è stato interpretato dagli osservatori internazionali - di un annuncio “forte”, non a caso ribadito inaugurando un anno importante della storia della Repubblica popolare cinese, per l’appunto quel 2024 in cui ricorre (e sarà con certezza adeguatamente celebrato) il settantacinquesimo anniversario della sua esistenza.

Altrettanto significativo appare il fatto che l’intervento televisivo di Xi sia avvenuto a pochissimi giorni di distanza dallo svolgimento sull’“isola ribelle” di Taiwan (tale è la denominazione datane da Pechino) delle elezioni presidenziali e parlamentari. La netta affermazione, nella prima di esse, dell’attuale vicepresidente e candidato del Partito Progressista Democratico (Ppd), William Lai, il più deciso sostenitore, fra i tre contendenti all’incarico, di una chiara linea di autonomia, ha ovviamente rappresentato il risultato più sgradito per il Dragone, che avrebbe viceversa auspicato il successo di Hou Yu-in, esponente del Kuomintang (all’opposizione) e teorico di un approccio improntato a maggior cooperazione verso la Cina Popolare. Per quest’ultima, un motivo di parziale consolazione appare rappresentato dal voto per il rinnovo del Parlamento, ove il Ppd non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi. Va comunque da sé che persino per William Lai il termine “indipendenza” risulta bandito dal gergo politico, in quanto sostituito dal più realistico «mantenimento dello status quo».

Non va nemmeno dimenticato che, nel tentativo (fallito) di influenzare il responso delle urne, Pechino non aveva esitato, sino alla vigilia del 13 gennaio, ad abbinare le pressioni politiche ad altre forme di intimidazione, quali l’adozione di misure economiche restrittive e il ricorso a ostentate provocazioni in ambito militare, in concreto un mirato “mix” di sorvoli aerei, ripetuti passaggi nello Stretto di consistenti forze navali e cyber-attacchi rivolti alle infrastrutture taiwanesi.

Più in generale, dopo quello svoltosi a inizio gennaio in Bangladesh, il voto a Taiwan ha rappresentato il secondo momento del gigantesco electoral year che vedrà impegnati lungo l’arco dei prossimi 12 mesi circa 2 miliardi di persone (in pratica la metà dell’elettorato mondiale) sparsi in oltre 70 Paesi del pianeta. Nei primi mesi dell’anno sarà proprio l’Asia a essere chiamata in via principale al rinnovo (o conferma) delle proprie leadership (con l’importantissima consultazione indiana fissata in aprile), mentre, successivamente, l’attenzione di governi, media e opinioni pubbliche sarà destinata a spostarsi in Europa (elezioni dell’Europarlamento in giugno) e, nell’ultima parte dell’anno, negli Stati Uniti, in cui, con le “primarie” da poco avviate, in rappresentanza dei democratici e dei repubblicani potrebbero sfidarsi gli stessi candidati del 2020.

In tale amplissima tornata elettorale occorrerà, ovviamente, accettare l’inevitabile, vale a dire che tanto in Bielorussia che nella Federazione russa (chiamate al voto rispettivamente a febbraio e marzo) nulla potrà essere modificato rispetto al proseguimento, per un ennesimo mandato, delle dittature di Lukaschenko e Putin.

Né risultati “migliori” possono essere attesi in altri contesti ugualmente dominati dagli odierni regimi al potere, quali sono i casi del Venezuela, dell’Iran e, soprattutto, della Corea del Nord. Quello che appare importante è che ovunque le elezioni si prospettino come fair and free e, a maggior ragione, in versanti geografici diversi dall’europeo (la stessa Asia, l’Africa, l’America Latina), vengano premiati da parte dei corpi elettorali i partiti e i movimenti che collocano i valori della libertà, della democrazia e del rispetto dei diritti umani ai primi posti dei rispettivi manifesti politici.

In tal modo si otterrà anche il risultato di confutare l’immagine, cara ai regimi autocratici, di un sempre più spiccato distacco da detti valori che caratterizzerebbe le società di quei continenti.

A sostegno di tale tesi, viene spesso citata la contrapposizione frontale the West against the Rest che troverebbe concreta espressione, secondo tale interpretazione, anche in sede di voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York e proprio in relazione ai due principali conflitti in corso.

A contrastare tale fuorviante interpretazione non va dimenticato che la crescita economica, il progredire della scienza, il benessere diffuso e la tecnologia a portata di tutti risultano, all’interno di ogni singolo Paese, strettamente connessi a sistemi di governo democratici, in grado di abbinare la libertà dei mercati alle misure di tutela sociale e aperti, soprattutto, al dialogo e alla cooperazione internazionale. Un modello di stato, in altri termini, del tutto improponibile per i regimi unicamente interessati a protrarre indefinitamente nel tempo, sottraendosi a ogni verifica elettorale “seria”, la propria, inestinguibile sete di potere.

Anche per queste ragioni il voto taiwanese di metà gennaio che, nel premiare William Lai ha ribadito a chiare lettere la appartenenza di Taipei alla “squadra” delle democrazie, è destinato a rivestire una rilevanza addirittura superiore al contesto territoriale, pur certamente non secondario, in cui l’isola è inserita. «Noi abbiamo una sola speranza, continuare a vivere secondo il nostro modello democratico e libero» sono state le prime parole del neo-presidente nel messaggio di ringraziamento ai suoi elettori. L’auspicio è che tali affermazioni, testimonianza di un sistema virtuoso in cui uno scambio di ruoli fra maggioranza e opposizione è ipotizzabile a ogni singolo passaggio dalle urne, possano incontrare abbondanza di proseliti anche in occasione di altre contese politiche di questo, elettoralmente così importante, anno di grazia 2024.

 

Il Reggente, Marco Marsilli

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