ACCADE ALLE NAZIONI UNITE

 

Le guerre non finiscono quando si smette di parlarne. E quella tra l’aggressore russo e il popolo ucraino che difende il proprio territorio continua anche se è quasi sparita dalle cronache offuscata da un’altra catastrofe, cominciata con i barbarici attacchi terroristici di Hamas contro Israele e continuata con i bombardamenti della Striscia di Gaza che hanno già provocato decine di migliaia di morti.

Bisogna tenere le memoria vigile e soprattutto pensare a cosa accadrà dopo. A quali saranno le conseguenze di azioni che alcuni Stati pongono in essere a volte per ragioni di convenienza immediata. Bisogna capire se le strategie funzionano o meno nel lungo periodo.

Rimanendo sulla cronaca si può dire che il presidente russo Putin ha avuto la prova che in un mondo interconnesso non si conquista un Paese in una settimana. Il premier israeliano Netanyahu, da parte sua, sta constatando che una risposta armata generalizzata, seppur “giustificata” da un attacco vile e terribile, rischia di creare più problemi di quelli che risolve. Anche i terroristi di Hamas e i loro accoliti della regione devono fare i conti con la realtà: l’”attacco” che doveva essere “risolutivo” in realtà ha portato nuove sofferenze nei Territori, con migliaia di morti e di orfani che cresceranno nell’odio. Un risultato molto lontano dallo sbandierato obiettivo della distruzione di Israele.

Ma queste potrebbero essere opinioni, e allora restiamo ai fatti, ai numeri, che spesso forniscono un approdo sicuro in un mare di notizie difficili da interpretare. Concentriamoci su quelli del conflitto russo-ucraino, che essendo in corso da più tempo fornisce dati tragicamente affidabili. Secondo le stime fornite dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), al 30 novembre 2023 sono stati censiti in Europa 5.908.200 rifugiati provenienti dall’Ucraina, di cui 5.298.000 hanno ottenuto asilo, protezione temporanea o analoghi programmi di assistenza. Inoltre a fine settembre 3,7 milioni di persone erano sfollate all’interno del Paese.

Data l’emergenza giustificata dai combattimenti, questo esodo è al momento considerato un “effetto collaterale” da affrontare a tempo debito. Fino a quando gli scontri non cesseranno sarà così, poi sarà la volta di pensare agli investimenti colossali che saranno necessari per ricostruire un Paese in gran parte distrutto. Per ultima verrà affrontata la questione umanitaria, e di solito limitatamente agli effetti economici che un grande spostamento di persone comporta. Quello che spesso manca in questi processi è l’attenzione alla pacificazione. Ci saranno stuoli di industrie internazionali pronte a ricostruire tutto e meglio di come era. E ci saranno fabbricanti di armi pronti a proporre ai nuovi eserciti cataloghi di missili combat-tested e mitragliatori battle-proven. Lo stesso avverrà nella Striscia di Gaza, dove gran parte delle abitazioni sono state distrutte, e in Israele, dove sarà necessario blindare sempre di più le città nel tentativo, finora fallito, di evitare nuovi attentati.

Senza cedere alla facile retorica o a un ingenuo pacifismo, la domanda da porre a chi decide di attaccare una popolazione civile è sempre la stessa: «Funziona come strategia?». La risposta la fornisce la storia: quasi mai.

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