SEMINARIO ALLA CAMPANA SULLA RIVOLTA IN IRAN

 

«Donne e  ragazzi che si stanno battendo da soli, pacificamente, per chiedere “solo” la libertà». Poche parole sono bastate a Pejman Abdolmohammadi, professore associato all’Università di Trento che si occupa di Storia del Medio Oriente, per definire la situazione in Iran. In realtà il senso della questione sembra poggiarsi principalmente su quel “solo”. Ci sono Paesi dove non si può dire o fare quello che si vuole, anche quando non si reca alcun danno agli altri. Per cambiare le cose ci vuole «un grande movimento rinascimentale» ed è quello che, secondo lo studioso, è in corso nella Repubblica islamica. L’occasione per approfondire l’argomento è arrivata il 3 febbraio scorso sul Colle di Miravalle dove la Fondazione Campana dei Caduti ha organizzato un incontro sul tema  «“Donna, vita e libertà”.

Analisi e testimonianze della protesta per l’affermazione dei diritti in Iran». Dopo i saluti istituzionali gli interventi di Abdolmohammadi e della giornalista Sara Hejazi, ricercatrice presso la Fondazione Bruno Kessler, hanno puntato lo sguardo su una realtà complessa, che non vede uno scontro tra due parti coese al loro interno, ma propone una serie di sfaccettature difficili da comprendere dalla nostra prospettiva geografica e culturale.

Su un punto però sono tutti d’accordo: a protestare sono principalmente i millennial, giovani nati dopo il 2000 che «durante le manifestazioni vengono picchiati, spesso arrestati, a volte torturati, in qualche caso uccisi». Sono cose che leggeremo nei libri di storia. Forse li chiameremo eroi, di sicuro ci stanno ricordando che la libertà non viene dispensata gratuitamente. Ma cosa vogliono esattamente questi ragazzi? Per rispondere alla domanda Abdolmohammadi parte da un’analisi demografica. «Dobbiamo tener presente che il 61 per cento della popolazione iraniana, che è di circa 84 milioni di persone, è sotto i 25 anni. E in questa fascia è collocata in gran parte la leadership del movimento che vuole il cambiamento. Più in generale il 75 per cento degli abitanti del Paese ha meno di  44 anni, persone che sono nate o nell’anno della rivoluzione, il 1979, o dopo».

In pratica non conoscono altro. Le richieste che provengono da questa massa sono principalmente due: il rispetto dei diritti fondamentali dell’Uomo, valori universali che valgono ovunque, e la separazione tra religione e politica, la laicità dello Stato.

Da 44 anni, sottolinea ancora Abdolmohammadi, la Repubblica islamica impone codici valoriali a tutta la popolazione. L’obbligo del velo è uno di questi ed è quello che ha causato la scintilla che ha fatto scoppiare la rivolta. Tutto è cominciato con l’uccisione di Mahsa Amini, la ventiduenne arrestata dalla polizia religiosa il 13 settembre 2022 a Teheran perché aveva la testa troppo scoperta. Tre giorni dopo è morta a causa delle percosse ricevute. I suoi coetanei non hanno accettato l’accaduto e si sono scagliati contro una legge che obbliga tutte le donne sopra i 9 anni a indossare il velo in pubblico. Poi la rivolta si è allargata e i ragazzi hanno cominciato a chiedere di più, in particolare quel pluralismo culturale garantito da Mohammad Reza Pahlavi, l’ultimo scià di Persia  che ha regnato sull’Iran dal 16 settembre 1941 fino alla rivoluzione islamica dell’11 febbraio 1979. In epoca prerivoluzionaria, infatti, «le donne potevano scegliere se indossare la minigonna o il velo, se andare in discoteca o in qualsiasi altro posto», insomma erano libere. Per questo Abdolmohammadi definisce questo movimento il «rinascimento iraniano», perché «si tratta di far rinascere quello che già c’era, non di inventare qualcosa di nuovo».

Sara Hejazi da parte sua si è concentrata inizialmente sul titolo del seminario che riprende lo slogan utilizzato dai manifestanti: «Donna, vita, libertà». Concetti, ha detto, che vanno intesi nel loro insieme: «La donna genera la vita che va vissuta lottando per la libertà». Questo non è uno slogan inventato in questi mesi, ma ha una storia lunga che risale al movimento femminista promosso da Abdullah Öcalan, leader del movimento per l’autonomia del Kurdistan che sta scontando l’ergastolo in una prigione turca. La rivolta iraniana si inscrive dunque all’interno di un tentativo più ampio di ricollocare i rapporti di genere su una modalità equa.

L’Iran ha una storia millenaria e pluralista. Basti pensare a Ciro il Grande e ad altri re con una visione molto tollerante. Allo stesso tempo, però, gli ultimi trecento anni sono stati problematici nel rapporto con la modernità e il velo ha giocato un ruolo fondamentale come simbolo, anche perché è stato da alcuni percepito come estraneo all’autenticità persiana. In effetti l’Iran è un Paese “recente” e per niente omogeneo, pieno com’è di minoranze etniche e religiose. Il rapporto con la modernità è stato problematico sin dal Settecento e poi per tutto l’Ottocento, quando gli europei lo vedevano come un luogo arretrato, irrazionale e retrogrado. «Ma gli iraniani - ha sottolineato Hejazi - non pensavano di essere arretrati solo perché le donne portavano il velo».

La vicenda, però, è ancora più articolata. Ci sono stati periodi, come negli anni Trenta del Novecento, in cui le autorità addirittura sconsigliavano alle donne di coprirsi la testa. «A quel tempo l’Iran era alleato con la Germania nazista e quindi bisognava assomigliare il più possibile ai tedeschi, anche esteticamente, per cui si indossavano abiti europei. Per una parte della popolazione però questo rappresentò un trauma e le donne cominciarono a cercare degli escamotage per uscire senza vergognarsi. Portavano grossi cappelli, nascondevano le proprie forme negli ampi cappotti dei mariti. Insomma la storia è stata piena di atteggiamenti particolari, fino ad arrivare al momento prerivoluzionario, dove in effetti c’era una certa libertà culturale».

Il tema principale della rivoluzione del 1979, ha continuato l’esperta, era essenzialmente politico: «Non si voleva stare né con l’Occidente né con l’est comunista. L’intento era quello di creare un nuovo paradigma ideologico incentrato su un Islam che garantisse la giustizia sociale». È a questo punto che il velo ha subìto una trasformazione «diventando un simbolo totalmente nuovo, prettamente politico». Secondo Hejazi, quindi, «si tratta di inquadrare il fenomeno all’interno di un tentativo di spostamento dei confini della morale che va avanti da decenni, probabilmente da quando è finita la guerra con l’Iraq. A un certo punto le nuove generazioni hanno cominciato ad avere un’esigenza di visibilità pubblica. Anche perché c’è tutta una serie di persone e di identità che non collimano con la narrazione che vuole che lo spazio pubblico sia “pulito”, “puro” e “morale” secondo le leggi islamiche». L’imposizione di regole “morali” attraverso la repressione fa sì che 84 milioni di persone vivano in una polveriera, ma questo non significa che la pensino tutti alla stessa maniera. «L’estate scorsa, prima della rivolta attuale - ricorda la giornalista - un giorno c’era una manifestazione contro il velo e il giorno dopo un’altra a favore. La vera domanda è: qual è la vera identità dell’Iran? La risposta è difficile, anche perché se da una parte ci sono i ragazzi che stanno lottando per la libertà, dall’altra c’è chi questo movimento non lo capisce».

Iscriviti alla nostra newsletter

Quando invii il modulo, controlla la tua inbox per confermare l'iscrizione