ZELENSKY E LAVROV PARLANO AL CONSIGLIO DI SICUREZZA

 

Spesso il termine “storico” viene usato a sproposito. Meglio quindi stare alla larga da quella definizione. Qualche volta, però, la tentazione è forte, come quando i rappresentanti di due Paesi in guerra tra loro si siedono nella stessa stanza. È accaduto il 20 settembre alle Nazioni Unite, anche se il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky se ne era già andato quando è arrivato il ministro degli esteri russo Serghej Lavrov. Non troppo lontano dal capo di Stato di Kiev sedeva però l’ambasciatore di Mosca all’Onu Vasilij Nebenzja, che si è premurato di precisare che il suo capo della diplomazia era molto impegnato e prima non poteva arrivare.

Zelensky è andato giù duro aprendo i lavori del Consiglio di sicurezza, tenuto a margine dell’Assemblea generale. La tesi è molto diretta e chiara. «È impossibile fermare la guerra perché tutti i tentativi vedono il veto dell’aggressore». «La maggior parte del mondo», ha detto, riconosce che le azioni della Russia in Ucraina sono «criminali e immotivate e mirano a impossessarsi del territorio e delle risorse ucraine». Il Consiglio di sicurezza, ha aggiunto sollevando qualche critica verso il Palazzo di Vetro, «resta bloccato in una situazione di stallo a causa dell’opposizione di Mosca». Come diretta conseguenza Zelensky ha chiesto, come aveva già fatto in passato, che il Cremlino sia privato del diritto di veto. Il presidente ha anche motivato la richiesta: il diritto di veto apparteneva all’Urss e non alla Russia di Vladimir Putin, che lo usa quindi in modo «illegale» per «mascherare l’aggressione e il genocidio».

La richiesta appare estremamente difficile da realizzare, anche perché potrebbe essere la stessa Russia a fermare l’iter. Esiste tuttavia un precedente che risale al 1971, quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite privò Taiwan del potere di veto che deteneva come rappresentante della Cina, consegnandolo invece al governo comunista di Pechino. In subordine, il leader ucraino ha sollecitato un ampliamento del Consiglio di sicurezza con seggi permanenti che dovrebbero essere assegnati all’Africa, all’Asia e alla Germania. Ma anche qui verrebbe da chiedersi se un organismo così allargato sia più efficiente o risulterebbe ingestibile.

La questione da risolvere ora però resta il conflitto e su questo il presidente ucraino ha le sue idee che, ovviamente, non vengono ufficialmente nemmeno prese in considerazione dalla controparte. Il piano di Kiev è in 10 punti e pone, come condizione indispensabile, il ripristino dei confini precedenti all’invasione della Crimea nel 2014. Attualmente la questione non sembra in discussione.

Si è discusso invece su una questione di forma, che come è ovvio, nei consessi multilaterali è essa stessa sostanza. Il fatto che Zelensky abbia parlato per primo ha provocato le proteste del rappresentante di Mosca, secondo il quale questo procedimento avrebbe «minato l’autorità del Consiglio di sicurezza», trasformandolo nel teatro di uno «show personale».

Ci ha pensato il premier albanese Edi Rama, presidente di turno, a ristabilire le priorità: «C’è una soluzione, fermate la guerra e il presidente Zelensky non prenderà la parola».

Dopo l’uscita del leader ucraino dalla stanza, la sfida si è consumata tra il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, sostenuto da tutti i colleghi occidentali, e Lavrov. Il capo della diplomazia statunitense ha accusato la Russia di aver «stracciato la Carta Onu» e di commettere «crimini contro l’umanità» ogni giorno in Ucraina. Il segretario di Stato ha anche cercato di rassicurare il Sud globale sottolineando che è una «falsa scelta» quella tra rimanere a fianco dell’Ucraina e affrontare le altre crisi, come il climate change, sostenendo che «possiamo e dobbiamo fare entrambe le cose». Lavrov, da parte, sua ha accusato gli Usa e i suoi alleati di aver interferito nelle vicende ucraine sin dalla caduta dell’Urss per imporre politiche filo-occidentali a Kiev e ha scaricato sull’Occidente la colpa dell’aumentato rischio di un «conflitto globale». In particolare si è scagliato contro la Nato, rea di essersi rifiutata di impegnarsi nel dialogo che avrebbe potuto prevenire le tensioni in Europa. Poi è arrivato il momento della retorica più prevedibile, con l’affermazione, ormai un cavallo di battaglia del Cremlino, secondo cui qualsiasi governo anti-russo a Kiev non è altro che un «burattino» degli Usa, suggerendo che Washington potrebbe «ordinare» in qualsiasi momento a Zelensky di negoziare con la Russia. «Mosca non rifiuta il negoziato, è Zelensky che ha firmato un decreto per vietare un dialogo col presidente Putin», ha ricordato Lavrov, difendendo infine la legittimità del potere di veto russo.

Insomma le porte sembrano chiuse al dialogo, anche se la Cina ha cercato di accreditare il suo ruolo di mediatore, rivendicando di essere stata costruttiva «a modo suo» nel tentativo di creare una via di uscita dalla guerra in Ucraina ed esortando gli altri Paesi ad evitare di «versare benzina sul fuoco».

Chissà se è stato un giorno storico. Chissà se gireranno un film su questi avvenimenti, come quello che ricorda la frase pronunciata dall’ambasciatore Usa presso l’Onu il 25 ottobre 1962, in piena Crisi dei missili di Cuba. Durante una sessione d’emergenza del Consiglio di sicurezza il diplomatico americano incalzò il rappresentante sovietico, Valerian Zorin, chiedendogli se il suo Paese stesse installando missili a Cuba e sollecitando una risposta immediata: «Non aspetti la traduzione!». Al rifiuto di Zorin di rispondere, Stevenson rincarò la dose assicurando che poteva attendere: «Fino a quando l’inferno non si congelerà». In quel caso è finita bene, il terzo conflitto mondiale è stato scongiurato. Ma evidentemente la storia e i film che la raccontano insegnano poco se sessantuno anni dopo siamo più o meno allo stesso punto.

 

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