Sullo sfondo della più calda estate mai verificatasi nel sud-Europa e nel bacino mediterraneo dalla istituzione delle rilevazioni statistiche (accompagnata nel nord del nostro Paese da fenomeni meteorologici, quali nubifragi e tornadi, opposti ma altrettanto estremi) l’editoriale di questo mese consterà di richiami, volutamente sintetici, ad alcuni dei temi principali dell’attualità internazionale.

Primo di essi proprio il dossier climatico, non potendo certamente essere ignorate le dichiarazioni del segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, secondo il quale «l’era del riscaldamento globale è terminata, cedendo il posto a quella della ebollizione globale». Per il fatto di provenire dall’organismo multilaterale “per eccellenza”, depositario della storica Convenzione di Parigi del 2015, si tratta di un grido d’allarme di straordinaria intensità, oltretutto accompagnato da appelli nazionali improntati ad analoga preoccupazione. Nel caso dell’Italia se ne sono fatti autorevoli interpreti tanto il presidente Mattarella (sottoscrivendo con altri 5 Capi di Stato una dichiarazione congiunta sul tema) che un consistente gruppo di scienziati, guidati dal Premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi, attraverso una “lettera aperta” di sensibilizzazione ai media.

Di questo ultimo scritto costituiscono aspetti centrali l’esigenza di procedere alla rapida eliminazione delle energie fossili, sostituendole con le rinnovabili, e la necessità di incrementare gli stanziamenti pubblici destinati a contrastare i dissesti geologici. A fronte dell’impellenza della questione, le note polemiche interne che agitano in questo periodo il governo e i partiti sulla più appropriata provenienza dei fondi da allocare a tale settore (se dal PNRR o da altre fonti) appaiono capziose e difficilmente comprensibili.

Passando al conflitto russo/ucraino, dopo oltre un anno e mezzo di combattimenti la situazione sul terreno evoca, una volta corretto geograficamente, il titolo di un celebre romanzo di Erich Maria Remarque. Su quel fronte, purtroppo sempre caratterizzato da un elevato numero di vittime e da immani distruzioni che non risparmiano i luoghi di culto e i monumenti storici, i due opposti schieramenti appaiono da tempo bloccati in una dispendiosa guerra di logoramento che nel breve/medio periodo non lascia intravvedere l’emergere di vincitori e di vinti. Rende egregiamente l’idea di un “muro contro muro” pressoché impenetrabile l’analisi dell’intelligence degli Stati Uniti, secondo cui i tre mesi di controffensiva ucraina si sono tradotti nella riconquista di una superficie di territorio nazionale molto modesta, equivalente alla nostra isola d’Elba.

Come evocato nel precedente editoriale, per uscire da un sempre più drammatico ricorso no limits alle armi, la più promettente fiammella di speranza (dovendosi segnalare al contempo anche un accresciuto attivismo del mondo arabo) sembra al momento costituita dalla missione di Pace affidata da Papa Bergoglio al Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (Cei), cardinale Zuppi. Dalla circostanza che dopo le tappe a Kiev, Mosca e Washington (molto enfatizzate anche a livello mediatico) l’iniziativa sembri avere un po’ perso di intensità (è stata peraltro ipotizzata una sua prossima missione a Pechino) non appare di per sé giustificato trarre conclusioni negative. È infatti risaputo che la diplomazia vaticana è solita fare di discrezione e riservatezza due componenti fondamentali del suo modus operandi.

Strettamente collegata al tema precedente appare poi la decisione, annunciata a metà luglio dalle autorità di Mosca, di sospendere l’esecuzione dell’”accordo sul grano”, concluso esattamente un anno fa con le controparti ucraine, grazie alla essenziale mediazione del presidente turco Erdoğan. Un accordo, come ampiamente conosciuto, che vedeva come beneficiari un certo numero di Paesi africani a rischio di bancarotta, in quanto tali impossibilitati ad acquisire a prezzi di mercato il prezioso cereale necessario per sfamare i propri connazionali.

A distanza di poche settimane dall’annuncio, una nuova edizione del Vertice Russia/Africa, svoltasi a San Pietroburgo su iniziativa del presidente Putin, ha permesso al leader del Cremlino di far sfoggio, una volta di più, del suo noto cinismo con l’annuncio che per 6 Paesi africani (quelli, ovviamente, maggiormente allineati a Mosca) le forniture sarebbero proseguite, addirittura a costo zero, la sospensione venendo applicata agli altri ex beneficiari, evidentemente non considerati sufficientemente “leali”.

Del resto, l’influenza russa sul “continente nero” ha trovato conferma, a fine luglio, nel colpo di stato che in Niger - uno dei Paesi a più basso reddito del mondo ma, fino a pochi giorni fa, l’unico regime democratico nell’intera area del Sahel - ha portato alla destituzione del presidente eletto Bazoum a favore dell’ex capo della guardia presidenziale, Generale Tchiani. Se il Cremlino ha smentito un proprio coinvolgimento diretto a sostegno dei rivoltosi, la presenza nel Paese di consistenti reparti della famigerata “milizia Wagner”, l’ostentata esibizione da parte degli ammutinati di bandiere russe e la vocale intenzione della nuova dirigenza nigerina di liberarsi dai modelli “occidentali”, dimostra esattamente il contrario.

A proposito di “milizia Wagner” l’incidente aereo, dai contorni non del tutto chiariti, di cui sono rimaste vittime il 23 agosto i suoi vertici militari (compreso il fondatore e leader indiscusso Prigozhin), lascia intravvedere, come conseguenza immediata, il rapido riassorbimento di tutti i reparti “irregolari”, sin qui in possesso di margini di autonomia, all’interno delle strutture strettamente subordinate al Ministero della Difesa russo e, in definitiva, al Cremlino.

La presente carrellata si conclude con l’evocazione della prima visita a Washington, dal suo insediamento a Palazzo Chigi, della presidente del Consiglio dei Ministri Meloni e dei colloqui dalla stessa avuti con il presidente Biden e con altri autorevoli esponenti dell’establishment Usa. A seguito della missione, le “perplessità” apertamente manifestate dopo la formazione del nuovo governo italiano tanto dalla Casa Bianca che dal Congresso appaiono definitivamente rientrate e sostituite dalla constatazione dell’esistenza di saldissime convergenze fra le due capitali, prima di tutte l’inequivocabile commitment italiano nel sostegno, politico e anche militare, a favore di Kiev.

Nei colloqui alla Casa Bianca non si è certo trascurato di valorizzare anche il ruolo di prestigio, ma soprattutto di grande responsabilità, che attende l’Italia nel 2024 nell’esercizio della Presidenza del G-7. L’annuale summit dei Paesi maggiormente industrializzati del pianeta è infatti chiamato, da tradizione, a gestire le priorità del momento in campo politico, economico/finanziario e sociale, spettando alla Presidenza di turno sia il compito di individuare in concreto tali macro-tematiche che di permettere il raggiungimento, su ognuna di esse, delle necessarie intese condivise.

Più o meno nella stessa ottica temporale (fine 2023) - e questa è la considerazione finale - si situerà un altro delicatissimo impegno internazionale, la visita della premier nella Repubblica Popolare cinese (Rpc). Sarà, inevitabilmente, all’interno di tale cornice che il presidente Xi Jinping verrà reso ufficialmente edotto della decisione italiana di non rinnovare la partecipazione alla «Belt and Road Initiative» (Nuova Via della Seta), alla quale il nostro Paese (unico fra i membri del G-7) aveva con grande enfasi mediatica (e, si ritiene, con insufficiente conoscenza dei contenuti dell’iniziativa) aderito nel 2019, su forte pressione di Pechino. Si tratta, anche sotto il profilo della forma, di un annuncio estremamente sensibile, in cui la corretta difesa degli interessi nazionali (alla base della decisione di recesso dall’intesa) dovrà essere accuratamente bilanciata dall’esigenza di “limitare i danni” nei futuri rapporti con il colosso asiatico, un partner comunque imprescindibile.

 

Il Reggente, Marco Marsilli

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