ACCADE AL CONSIGLIO D’EUROPA

 

Era il 1949, esattamente il 10 agosto, quando presso l’aula magna dell’Università di Strasburgo il francese Edouard Herriot aprì ufficialmente i lavori della prima sessione dell’Assemblea consultiva, divenuta poi Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (Apce). Dopo una dichiarazione in apertura di seduta, Henri Spaak, ministro degli esteri belga che due anni dopo sarebbe stato tra i “padri fondatori” della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), fu eletto presidente dell’Assemblea. Concludendo il suo discorso di insediamento disse una cosa semplice: «La mia parola d’ordine è: “ora al lavoro”, affinché, grazie ai vostri sforzi, la nostra vecchia Europa possa rinascere, organizzarsi e vivere!».

Oggi l’Apce raccoglie deputati di 46 Stati. I dieci fondatori (Belgio, Danimarca, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito e Svezia) possono essere soddisfatti della crescita del continente, impressionante se si considera quanto fosse basso il punto di partenza. La seconda guerra mondiale era finita da poco e il Consiglio d’Europa si era dato come missione la creazione di uno «spazio democratico e politico comune» su tutto il continente. Lo scopo era quello di garantire i diritti umani, la democrazia e lo stato di diritto.

Ci siamo riusciti? In parte. E questo è un problema per tutti perché i principi invocati oltre a essere alla base di una società tollerante, sono indispensabili per la stabilità europea, per evitare i conflitti, per la crescita economica e per la coesione sociale. Gli ultimi avvenimenti, con l’invasione russa dell’Ucraina che ha causato l’esclusione di Mosca dal Consiglio d’Europa, stanno a dimostrare quanto «ora al lavoro» sia ancora una parola d’ordine attuale, che poi è una frase.

Gli obiettivi sono chiari e riguardano in primo luogo la necessità di favorire la valorizzazione dell’identità e della diversità culturale in Europa. Lo scopo deve essere quello di trovare soluzioni comuni ai problemi di società complesse non più concepibili come separate e chiuse. Questo dovrebbe portare “naturalmente” a consolidare la stabilità economica in Europa favorendo le riforme politiche, legislative e costituzionali ed evitando i conflitti.

Ma quali sono gli strumenti che il Consiglio d’Europa ha a disposizione? A Strasburgo le iniziative prendono la forma di accordi studiati in modo da adattarsi al sistema di diritto di tutti gli Stati membri. A oggi sono stati emessi oltre 200 trattati, di cui 128 firmati e ratificati anche dalla Svizzera. La lista è lunga, ma al primo posto in ordine di importanza c’è sicuramente la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (Cedu), che consente a privati cittadini di inoltrare un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Questi accordi sono accompagnati da diverse risoluzioni e raccomandazioni indirizzate agli Stati membri, che hanno un ruolo primario nel trovare soluzioni ai problemi comuni.

Ma che cosa accade se un governo non mette in pratica il dettato di una convenzione che ha firmato? Troppo poco. «Ora al lavoro», direbbe Henri Spaak, è tempo di affrontare la questione. Magari prima delle celebrazioni del centenario della prima seduta dell’Assemblea consultiva che sono previste tra 26 anni.

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