Di tutti i cittadini russi che potevano rappresentare una concreta minaccia alla ferrea leadership del presidente Putin, sino a qualche tempo fa, Evghenji Prigozhin appariva di gran lunga il meno sospettabile. E non a caso. Da lunga data strettissimo collaboratore e confidente del “nuovo Zar”, al quale aveva per anni garantito la sicurezza (e anche una qualche raffinatezza alimentare), Prigozhin aveva con il tempo esteso al settore militare le sue indubbie capacità organizzative. Anche perché accoppiate a una totale mancanza di scrupoli nonché a un’altrettanto completa indifferenza per la (altrui) vita umana, Prigozhin si era trasformato in un preziosissimo strumento del Cremlino per ampliare la sfera di influenza russa nel mondo. Le sue “milizie Wagner” erano infatti divenute indispensabili strumenti di sicurezza “a 360 gradi” soprattutto per i presidenti di vari Stati medio-orientali e africani (vedasi in proposito il numero di maggio de «La Voce di Maria Dolens»), volentieri disponibili a barattare la protezione delle loro cariche (e dei loro averi) con atteggiamenti accondiscendenti verso Mosca, in particolare in occasione dei dibattiti in sede Onu sul conflitto russo/ucraino.
È vero che, da ultimo, l’ex cuoco di Putin si era preso licenze sin qui inedite nel contesto politico/militare russo, giungendo ad attaccare pubblicamente i vertici militari del suo Paese (il ministro della Difesa Shoigu e il capo di Stato Maggiore Gherasimov) con accuse di manifesta inettitudine nella gestione della “operazione speciale” lanciata il 24 febbraio 2022. Accuse, lo si sottolinea per inciso, non del tutto infondate, raffrontando i modesti risultati ottenuti sul terreno con la netta superiorità russa in uomini, mezzi e materiali.
A commento dei noti, sino alla vigilia degli, inimmaginabili, eventi del 24 giugno, una riflessione più approfondita induce a ritenere che solo l’“accortezza” di non avere incluso nei destinatari dei suoi anatemi il capo del Cremlino, oltre che all’attività di intermediazione del presidente bielorusso Lukaschenko, abbia sin qui salvato la vita a Prigozhin. Ma anche così la sua sorte personale appare davvero legata a un filo e il destino delle sue ex truppe incerto fra la dissoluzione e l’incorporamento, in funzione di pesante subordinazione, negli effettivi regolari.
In campo internazionale, scontate le previste reazioni di solidarietà a Putin provenienti da Cina, Iran, Qatar e da altri Paesi tradizionalmente vicini a Mosca, è significativo il fatto che dai due lati dell’Atlantico, superata la prima fase di sorpresa, la gravissima insubordinazione del capo della Wagner sia stata etichettata come «faccenda interna russa».
Con tale unanime giudizio, le capitali Ue e Nato non solo hanno voluto escludere qualsiasi loro diretto coinvolgimento nell’affaire, ma hanno anche inteso smentire che l’ipotesi di un regime change a Mosca sia stata dalle stesse mai ipotizzata, nemmeno nelle convulse ore immediatamente successive alla “marcia dei 25.000”.
Se tale interpretazione appare nella sostanza corretta, sembrerebbe al tempo stesso erroneo ricondurre la situazione russa di oggi alla formula del business as usual. Sul fronte interno, dopo il sabato di inizio estate Putin non è più inattaccabile e Prigozhin ne ha scalfito, forse per sempre, quell’immagine pubblica di invincibilità pervicacemente coltivata dall’ex funzionario del Kgb sin dai tempi della spietata repressione anti-cecena.
Anche sullo sfondo di una contro-offensiva ucraina che stenta a decollare, almeno a giudicare dalle modeste riconquiste territoriali delle più recenti settimane, nella cronologia dei 17 mesi di conflitto l’attuale appare come uno dei momenti più favorevoli al ricorso alla diplomazia, piuttosto che al protratto uso, senza previsioni di durata, delle armi. Peccato che un principio di tale evidenza si scontri, oggi, con la oggettiva assenza di una cornice negoziale accettata da tutte le parti in conflitto, entro la quale situare una qualunque forma, anche la più embrionale, di trattativa. Su tale aspetto, affidiamo ben volentieri ai seguiti della “missione di Pace” promossa da Papa Francesco e interpretata con tatto e competenza a Kiev così come a Mosca, nonché, proprio nei giorni scorsi, a Washington dal cardinale Matteo Zuppi, il compito di smentirci.
Il Reggente, Marco Marsilli


