Dal momento che dicembre è, tradizionalmente, mese di bilanci, proviamo a formularne uno anche noi, a carattere geo-politico, prendendo a riferimento gli 11 editoriali de «La Voce di Maria Dolens» apparsi, prima di quest’ultimo, nel corso del 2022.

Prevedibilmente, la nostra attenzione si è in particolare concentrata sul drammatico conflitto russo/ucraino, esaminato nelle sue principali, sfaccettate componenti - dall’economica alla umanitaria, dalla multilaterale alla militare - in tre articoli di fondo. Come prima osservazione, nel rileggerli appare evidente l’assenza di una nostra (ma questo vale pressoché all’unisono per altri e ben più autorevoli commentatori) previsione, seppure approssimativa, di durata della conflittualità, quasi che - nel passare sotto silenzio la questione - si auspicasse di accelerarne la conclusione. A quasi 10 mesi di distanza dalla sciagurata, criminale decisione del presidente Putin di aggredire, senza alcun concreto motivo, il Paese confinante, occorre purtroppo riconoscere che i tempi di composizione della crisi si stanno, viceversa, tragicamente ampliando mentre, in parallelo, aumenta l’eventualità di rischi che neppure le forze belligeranti sono in grado di controllare (come dimostra il recente caso del missile, di incerta provenienza, “sconfinato” per errore in Polonia).

Se si eccettua la tenuta (e, anche qui, non senza qualche scossone) del cosiddetto “Accordo sul grano” - favorito, è imbarazzante riconoscerlo, non dal mediatore istituzionale, cioè le Nazioni Unite, ma da un personaggio dalle dubbie patenti democratiche quale è il presidente turco Erdogan - per il resto la situazione rischia di trasformarsi in una sorta di irrisolvibile “cubo di Rubik”. Da un lato, il Cremlino ha infatti proceduto all’annessione di quattro territori ucraini “separatisti”; dall’altro, le truppe di Kiev, sono ormai da svariate settimane impegnate, con successo come nel caso dell’avvenuta riconquista di Kherson, in una controffensiva finalizzata senza alcuna ambiguità al ristabilimento dei confini “pre 24 febbraio”. Una circostanza, quest’ultima, che ha portato l’alta dirigenza russa a minacciare, a più riprese, l’utilizzo dell’arma nucleare tattica, partendo dall’assimilazione - beninteso, priva di ogni legittimità internazionale - delle aree “neo-russe” al territorio della Federazione.

Su questo sfondo sembra assumere una tragica veridicità la battuta di chi osserva come il presidente Putin (la cui permanenza al potere viene identificata dalla maggioranza degli analisti politici come “incompatibile” con qualsiasi ipotesi di cessazione delle ostilità e apertura di un tavolo negoziale) nell’annunciare la primavera scorsa, sull’onda di un entusiasmo per i primi successi russi sul terreno rivelatosi in seguito del tutto infondato, che i combattimenti si sarebbero conclusi “entro il 9 maggio “ (data “sacra” in Russia, perché associata alla vittoria del 1945 sulla Germania nazista), avesse omesso, intenzionalmente o meno, di specificarne l’anno.

A quasi 10 mesi dall’invasione dell’Ucraina i tempi di composizione della crisi si stanno tragicamente ampliando

Passando ad altri temi, settembre ci aveva visto prendere in rassegna il momento di grave difficoltà nelle relazioni sino-americane, in conseguenza della visita a Taiwan, ostinatamente preparata e attuata anche contro il parere della Casa Bianca, dalla allora terza carica istituzionale Usa, la “speaker” Nancy Pelosi. Se il complesso di provocazioni militari a tutto campo architettato da Pechino in segno di protesta è andato con il tempo esaurendosi, non è passato di certo inosservato il “passaggio” dedicato dal presidente Xi Jinping alla “provincia ribelle” nel discorso di apertura al Congresso del Partito comunista cinese, riunito lo scorso ottobre per deliberare a suo favore (nella forma, perché nella sostanza tutto era già stato scritto) un inedito, terzo mandato. Lo hanno infatti caratterizzato affermazioni durissime («la riunificazione sarà ottenuta con tutti i mezzi disponibili»), tendenti a non lasciare dubbi sull’obiettivo finale della Cina popolare di annettere l’isola, considerata (anche in questo caso a torto) come componente integrale del territorio nazionale. Esternazioni, oltretutto, che sul piano interno non sembrano ormai conoscere alcun tipo di “freno”, considerata la circostanza che il XX Congresso è stato abilmente sfruttato da Xi per eliminare ogni possibile forma di opposizione, sostituendo con fedelissimi tutte le alte cariche dello Stato, eccettuata la propria. L’allontanamento forzato dalla sala della riunione dell’ex Presidente Hu Jintao ha rappresentato, anche di fronte ai media e alle opinioni pubbliche mondiali, il segnale inequivocabile di un potere privo non solo di inibizioni morali ma, ormai, anche di limiti o contrappesi operativi.

Sul fronte opposto, quello degli Stati Uniti, le recenti elezioni di mid-term hanno conferito nuovo vigore all’amministrazione in carica che è riuscita a mantenere il controllo, vitale, del Senato, riducendo le perdite, peraltro scontate, alla Camera bassa. Il primo incontro bilaterale fra i presidenti Biden e Xi Jinping, avvenuto a Bali a margine della riunione del G20, ha avuto il merito di instaurare una interlocuzione al vertice da troppo tempo assente, ma sotto il profilo dei contenuti può essere considerato poco più di un “calcio d’inizio”. Uno dei non molti aspetti di convergenza nelle posizioni di Pechino e di Washington è rappresentato dalla condivisa, esplicita e ferma condanna di un eventuale “azzardo atomico” di Mosca, un’ipotesi definita senza mezzi termini «irresponsabile» da Xi Jinping e, in termini non dissimili, anche dall’indiano Modi. Si tratta, a ben vedere, di una convergenza talmente importante da rendere possibile la riapertura di un dialogo su aspetti decisamente più problematici, quali i noti contenziosi economici, le lontanissime visioni esistenti in materia di democrazia, diritti umani, temi ambientali, lotta alla pandemia e approvvigionamento alimentare, senza evocare gli opposti disegni geo-strategici globali, soprattutto sul futuro del continente asiatico dove Pechino non fa mistero di perseguire uno status di incontrastata egemonia.

Nel mese di marzo avevamo, invece, analizzato la situazione politica in Libia, un Paese di enorme importanza per la stabilità del bacino mediterraneo e della continuità dei nostri approvvigionamenti energetici. A distanza di qualche tempo, occorre riconoscere di essere in presenza di uno dei non pochi dossiers geo-politici che la aggressione russa all’Ucraina ha relegato a qualche titolo di coda sui giornali e a pochi, distratti servizi televisivi. Il Paese continua profondamente diviso fra il governo di Tripoli, riconosciuto dall’Onu, e la parte orientale, dominio dell’uomo forte di Bengasi, il Generale Haftar, che non ha di certo rinunciato al piano di unire il Paese sotto la sua guida. Delle “libere elezioni”, che avrebbero dovuto aver luogo a fine 2021 sotto la supervisione della comunità internazionale, nessuno - per l’assenza di una qualsiasi prospettiva di pacificazione e forse anche per pudore - osa fare ormai un benché minimo cenno.

Pechino non fa mistero di perseguire uno status di incontrastata egemonia sul continente asiatico

Nel corso dell’anno ci eravamo inoltre soffermati su due personalità politiche di peso, l’una in fase di ritiro (la cancelliera tedesca Merkel), l’altra riconfermata nell’incarico (il presidente francese Macron). Anche se le relazioni politiche fra Berlino e Parigi hanno probabilmente conosciuto tempi migliori degli attuali, le due capitali costituiscono, si può dire da sempre, l’asse portante della costruzione europea, il cui ulteriore rafforzamento passa, imprescindibilmente, dalla loro condivisa volontà di “modernizzare” i Trattati, accentuandone la componente comunitaria a scapito dell’intergovernativa (in concreto, una più estesa applicazione delle decisioni a maggioranza rispetto all’unanimità). Un obiettivo, quest’ultimo, che per la sua importanza è auspicabile venga fatto proprio, con convinta determinazione, anche dal terzo grande Paese membro dell’Ue, l’Italia, indipendentemente - è bene precisarlo - da quella che è la sua compagine governativa del momento.

Rimangono, per ultimi, gli argomenti affrontati dagli editoriali più recenti, Brasile e Iran.
Relativamente al primo, l’elezione di stretta misura di Luís Inácio da Silva detto Lula farà, inevitabilmente, riprendere vigore alle politiche di sostegno sociale a favore dei ceti meno abbienti, trascurate durante il mandato di Jair Bolsonaro, e a rallentare, se non proprio a bloccare completamente, le misure di deforestazione in Amazzonia ampiamente applicate dal predecessore. Per evitare di accentuare il già esistente fenomeno di radicalizzazione interna, il nuovo presidente dovrà guardarsi dall’ antagonizzare i settori industriali e finanziario, benché in maggioranza vicini alle posizioni del candidato sconfitto, facendo ricorso alle forze centriste presenti nella sua coalizione per acquisire consensi in un Parlamento del quale non detiene la maggioranza. In campo internazionale, è altrettanto scontata l’assunzione da parte del Brasile della leadership del consistente gruppo di Stati del Sud America a trazione socialista (Argentina, Cile, Bolivia, Colombia e altri) che trovano nel cosiddetto “Mercosur” l’organizzazione regionale di riferimento. Tale accresciuta assertività - che il nuovo governo brasiliano farà verosimilmente valere anche in ambiti multilaterali diversi, quali G20 e BRICS - potrebbe portare a qualche “frizione” con gli Stati Uniti, in particolare se, a fine 2024, dalle urne delle “presidenziali” Usa uscisse vincitore il candidato repubblicano (si dovesse, o meno, chiamare Donald Trump).

In Brasile l’elezione di Lula alla presidenza farà riprendere vigore alle politiche di sostegno sociale

Per quanto concerne l’Iran, infine, nonostante misure di brutale repressione già costate ai dimostranti centinaia di vittime e migliaia di incarcerazioni (con la “travel blogger” italiana Simona Piperno nel frattempo rientrata in patria), le manifestazioni di piazza organizzate dalla eroica componente femminile del Paese all’insegna del motto «Donna, Vita e Libertà» continuano senza interruzione da metà settembre, coinvolgendo non solo le grandi città ma anche i centri minori, ove il controllo dei pasdaran è più agevole e, di conseguenza, più rigoroso.

In Iran nonostante misure di brutale repressione le manifestazioni contro il governo continuano senza interruzione da metà settembre

L’ormai evidente incapacità del regime di bloccare, nonostante il dispiego di imponenti forze di polizia, i nuovi cortei mostra chiaramente come il sistema di teocrazia del presidente Raisi e dell’ayatollah Khamenei sia confrontato a una situazione potenzialmente esplosiva, suscettibile di metterne con il tempo in pericolo la stessa sopravvivenza.
Se, in tutto o in parte, l’Iran riuscisse a liberarsi da una morsa perversa e soffocante che impedisce alle grandi potenzialità del Paese di emergere, costringendolo a un assurdo isolamento internazionale, l’uscente 2022 riscatterebbe un bilancio che, lungo l’arco dei 12 mesi, è risultato nel suo complesso estremamente preoccupante, consegnando all’entrante 2023 la prospettiva di almeno uno sviluppo geopolitico decisamente positivo.

Un sereno Natale ed un felice Anno Nuovo a tutti i nostri lettori!

 

Il Reggente, Marco Marsilli

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