«Due Bandiere e due Stati» avevamo invocato oltre due anni fa (vedi il numero 9 della «Voce» pubblicato nel luglio 2021) tracciando il quadro, attualizzato a quel momento, dell’antico conflitto fra Israele e Palestina. Nei molti decenni di contenzioso non erano certo mancati gli episodi di tensione e di aperta violenza, ma l’efferato massacro di civili innocenti compiuto dai terroristi di Hamas il 7 ottobre scorso e la reazione di Tsahal (le forze di difesa israeliane) senza alcun dubbio eccedente i limiti consentiti dal diritto umanitario (codificati nelle Convenzioni di Ginevra), hanno sortito un devastante effetto moltiplicatore nei sentimenti collettivi delle due popolazioni, ormai qualificabili - purtroppo - come reciproca, inconciliabile avversione.
Con quell’appello intendevamo esprimere la convinzione che solo la costituzione di uno Stato palestinese indipendente avrebbe permesso con il tempo, se non la completa pacificazione di un’area geografica fra le più tormentate del pianeta, almeno la creazione di un clima di accettabile (anche obtorto collo) convivenza. Ciò premesso, sarebbe ipocrita negare che quello dei due Stati e delle due Bandiere è un obiettivo di difficilissimo raggiungimento, in quanto ostaggio di veti reciproci apparentemente insormontabili.
Dal lato arabo, il permanere, non limitato all’atto costitutivo di Hamas ma ben radicato anche nelle dottrine di vari Stati, di posizioni radicali contemplanti la pura e semplice cancellazione dello Stato ebraico dalla faccia della terra. Da quello israeliano, il rifiuto ad arrestare le politiche di insediamento dei propri connazionali in quei territori (in particolare in Cisgiordania) destinati a formare il nucleo primario di una Palestina internazionalmente riconosciuta. Da poche migliaia di persone negli anni Sessanta, i coloni hanno ormai superato le 700.000 unità, alimentando con il loro voto compatto le fazioni più intolleranti del governo di Tel Aviv.
Pur riconoscendone le difficoltà, sono proprio gli orrori cui stiamo giornalmente assistendo, con le terribili immagini dei kibbutz violati e degli ostaggi massacrati o rapiti che si alternano a quelle degli ospedali e dei campi di raccolta profughi bombardati dall’aviazione di Tel Aviv, a evidenziare l’assoluta esigenza (per non parlare dell’urgenza) di adoperarsi in tal senso. Alla cessazione dei combattimenti, dovrà seguire per l’area medio-orientale la individuazione di un nuovo ordine geo-politico, sufficientemente condiviso da non essere messo in discussione a ogni mutamento di governo, sia nei Paesi coinvolti sia in relazione ai rispettivi alleati.
Uno sviluppo virtuoso, quale il sopra descritto, non appare oggettivamente raggiungibile senza una definitiva debellatio dei terroristi di Hamas e dei movimenti radicali che lo sostengono (in primis Hezbollah) e dalla parallela affermazione, a Gaza come nel resto dei Territori, di movimenti politici moderati, disposti cioè alla collaborazione con uno Stato di Israele a sua volta depurato dalle frange più intransigenti e nazionaliste.
A livello di governanti, Benjamin Netanyahu e Mahmud Abbas / Abu Mazen (sempre in carica, il secondo, nonostante un mandato scaduto nel 2009) dovranno essere avvicendati, a Tel Aviv e a Ramallah, da governanti meno compromessi, che pongano al primo posto delle agende politiche un autentico impegno a risparmiare alle future generazioni di palestinesi e di israeliani le distruzioni e i massacri imposti alle odierne.
Del resto, all’inizio degli anni Novanta con la Conferenza di Madrid e gli Accordi di Pace di Oslo, ratificati a Washington da Rabin e Arafat, l’aspirazione di Israele a vivere in sicurezza e della Palestina a ottenere una patria, erano sembrati, come mai prima, vicini alla realizzazione. Se, nella storia, non è possibile riportare indietro le lancette dell’orologio, è altrettanto necessario adoperarsi affinché i precedenti - soprattutto se di segno positivo - non siano destinati all’oblio ma costituiscano motivo di riflessione e ispirazione per il futuro. La spirale perversa della contrapposizione antisemitismo vs islamofobia che, spesso senza un vero motivo, vede schierati anche vasti settori delle opinioni pubbliche occidentali, va affrontata con prospettive e risultati concreti, prima che il processo diventi irreversibile.
L’Unione Europea potrebbe rendersi promotrice di una iniziativa diplomatica ad ampio raggio
In questo delicatissimo versante geografico, l’Unione Europea - indispensabile punto di riferimento politico di Israele e, al tempo stesso, prima erogatrice di aiuti umanitari alla Palestina - potrebbe ritagliarsi uno spazio più significativo di quanto non avvenuto in occasione del conflitto russo/ucraino (conflitto, lo si sottolinea qui con sconcerto, improvvisamente sparito dai radar della attualità mediatica e degradato a una sorta di no event).
Mantenendo uno stretto contatto con gli Stati Uniti, in questa fase particolarmente attivi attraverso il segretario di Stato Blinken, i 27 membri dell’Unione Europea potrebbero rendersi così promotori di una iniziativa diplomatica ad ampio raggio, incentrata sui due aspetti intimamente collegati della Pace e della sicurezza, organizzando una Conferenza alla quale invitare, ovviamente, anche i Paesi arabi dell’area. In tale contesto e sotto la necessaria supervisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la creazione di una forza internazionale di Peace-keeping, destinata a monitorare per un certo numero di anni la situazione sul terreno, appare misura meritevole di essere presa in considerazione.
Oltretutto, un atteggiamento proactive risponde in primo luogo a evidenti interessi europei. È sufficiente considerare il fatto che con il protrarsi, praticamente alle sue porte, di un secondo, gravissimo fronte di conflittualità denso di conseguenze anche sul piano migratorio e finanziario, l’Unione Europea verrebbe inevitabilmente a trovarsi in una situazione di estrema difficoltà, non da ultimo per quello che riguarda il suo grado di coesione interna.
In aggiunta, arginare le guerre in corso serve, in chiave di prevenzione, anche a impedire che ulteriori focolai di tensione possano conoscere pericolose radicalizzazioni. Per rimanere in tema, la crisi in essere fra Serbia e Kosovo (Paesi candidati alla adesione all’Unione) connotata da ricorrenti scontri sul terreno e da allarmanti dichiarazioni delle due dirigenze, non può che destare a sua volta marcata preoccupazione, avendo luogo in una regione - i Balcani occidentali - situata a ridosso delle nostre frontiere.
Ritornando, in conclusione, al tema principale delle nostre riflessioni, nel suo ambito di competenza la Fondazione Campana dei Caduti si è fatta da tempo consapevole interprete della esigenza dei due Stati, accogliendo dal 2000 al Colle di Miravalle anche la bandiera palestinese (l’israeliana l’aveva preceduta di 25 anni). Nel nostro caso la dimensione è, ovviamente, simbolica, di forma, ma è auspicabile che la sottolineatura della pari dignità fra le due entità territoriali venga riprodotta con sempre maggior frequenza anche nei contesti politici di sostanza. Fortunatamente, il modello dei due Stati sta acquisendo un numero crescente di adesioni anche nell’ambito della comunità internazionale.
Attraverso il presente numero della «Voce», l’ultimo del 2023, desidero infine rivolgere a tutte le nostre lettrici e ai nostri lettori i voti più sinceri di serene Festività, conscio che «Maria Dolens» (pur costretta, in questo periodo, al silenzio a causa di ragioni tecniche) sarà idealmente in grado di moltiplicarli e di diffonderli indistintamente a 360 gradi.
Il Reggente, Marco Marsilli