Negli ordinamenti democratici l’esercizio elettorale rappresenta il momento più alto sul piano del coinvolgimento della popolazione nella vita istituzionale dei rispettivi Paesi, in quanto associato alla prerogativa di eleggere i propri governanti. Di norma, esso si conclude con la riconferma di coloro che si sono dimostrati validi e con un benservito a quelli rivelatisi, viceversa, incapaci.

La considerazione di cui sopra dispiega, beninteso, la propria valenza in presenza di Stati autenticamente democratici e pluralisti, rispettosi tanto della tradizionale tripartizione dei poteri quanto dei fondamentali diritti, e collegate libertà, dei propri cittadini. Il ricorso alle urne non può, infatti, da solo garantire il quadro ideale sopra descritto. La storia, ma anche l’attualità, offrono numerose testimonianze di sistemi politici attenti nel chiamare al voto, a cadenza regolare, i loro cittadini, salvo fare inevitabilmente emergere come vincitore - di solito a maggioranza schiacciante - l’autocrate di turno già saldamente insediato al potere.

La premessa serve a introdurre l’oggetto della presente analisi, la Libia, che con un eccesso di precipitazione la Comunità internazionale aveva, per l’appunto, «convocato» di recente al voto, in una data, oltretutto, di forte richiamo collettivo, vale a dire quel 24 dicembre che è celebrativo della Festa Nazionale.

Come ampiamente noto, le elezioni, rimaste in bilico sino all’ultimo, non si sono alla fine svolte, causa la lampante assenza delle condizioni minime per un esercizio di un voto che potesse definirsi «libero e inclusivo»

L’Italia potrebbe proporsi nel 2022 come organizzatore di una nuova Conferenza internazionale in un Paese a noi molto vicino per ragioni politiche ed economiche

D’altronde, come scegliere i propri leader in un territorio in cui i contingenti stranieri (in primis turchi e russi) sono tuttora presenti e pronti a intervenire alla minima occasione? E in cui l’ovest (Tripolitania) e l’est (Cirenaica) del Paese rispondono ad autorità distinte, in costante contrasto fra di loro e in grado di contare su proprie milizie dedicate? E, ancora, in un territorio in cui non vi è la definitiva certezza sui nomi dei candidati da sottoporre agli elettori, ma dove viene comunque garantita la presenza nelle liste di un ricercato per crimini contro l’umanità del Tribunale internazionale dell’Aja, vale a dire Saif al Islam Gheddafi, figlio del deposto (e barbaramente ucciso) ex dittatore?

Noi ci fermiamo qua, ma l’elenco delle gravissime disfunzioni oggi esistenti in Libia potrebbe essere ancora molto lungo. Su di esse si impone una nuova, approfondita riflessione della Comunità internazionale coinvolta nel ginepraio di questa tormentata area geografica.

Nel giugno dello scorso anno aveva avuto luogo la cosiddetta Conferenza di Berlino, con la partecipazione di 17 Paesi, comprendenti Italia, Francia e Germania sul fronte europeo, a fianco di Egitto, Turchia, Russia, Tunisia, Algeria, Emirati Arabi ed altri. Anche a qualche mese di distanza, tale formato continua ad assicurare un’ampia rappresentatività dei principali interessi in gioco, conditio sine qua non per il raggiungimento di un’indispensabile intesa concordata. A quest’ultima potrebbe offrire un contributo forse decisivo il nuovo consigliere speciale per le Nazioni Unite, la diplomatica americana Stéphanie Williams, prescelta dal segretario generale António Guterres proprio in considerazione della specifica esperienza nell’area, maturata in precedenti incarichi di responsabilità.

A questo punto, l’errore da evitare è soprattutto quello di imprimere una nuova e indebita accelerazione a un processo di “sedimentazione” delle strutture interne libiche, tanto politiche che militari che sul piano degli equilibri territoriali, processo che potrebbe richiedere tempi lunghi.

Ovviamente, una pressione adeguata deve essere mantenuta dalla Comunità internazionale sugli “uomini forti” del Paese, siano essi il premier Dbeibah, il “ras” della Cirenaica, il generale Haftar, o il presidente del Parlamento di Tobruk, Saleh, al fine di raggiungere un accordo consolidato, evitando i pericoli di “deragliamento”.

In parallelo, il secondo pericolo da evitare è quello di una rimozione dall’agenda internazionale del dossier, come purtroppo avvenuto per quello afghano, nonostante la gravissima situazione umanitaria instauratasi a seguito dell’ingresso dei Talebani a Kabul. Di conseguenza, un rinvio elettorale di qualche mese non sembra, a fronte di una tale prospettiva, un male eccessivo.

Nelle more, all’Italia potrebbe spettare un ruolo di rilievo, anche per i suoi fortissimi interessi politici, economici (energia), sociali (migranti) e di altra natura collegati alla stabilizzazione del Paese sud-mediterraneo.

Una volta definiti i nuovi inquilini al Quirinale e a Palazzo Chigi, il nostro Paese potrebbe nel corso del 2022 proporsi come organizzatore di una nuova Conferenza internazionale sulla Libia, ovviamente in presenza di determinate condizioni sul terreno e con il consenso di tutte le parti coinvolte. Un’iniziativa sicuramente impegnativa ma in grado di apportare dividendi preziosi sul piano della nostra immagine e credibilità internazionale.

In tutt’ altro contesto, intervenendo le due ricorrenze “a cavallo” della pubblicazione di due numeri della «Voce», ritengo doveroso menzionare in questa sede per il loro straordinario significato, sia storico che di monito per il futuro, le due date della «Giornata della Memoria» (27 gennaio) e della «Giornata del Ricordo» (10 febbraio), da alcuni anni opportunamente inserite da Leggi della Repubblica nel calendario delle commemorazioni ufficiali del nostro Paese e che abbiamo ampiamente trattato su queste pagine.

 

Il Reggente, Marco Marsilli

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