INTERVISTA ALL’ECONOMISTA ADALGISO AMENDOLA SULL’OBIETTIVO 8 DELL’AGENDA 2030 DELL’ONU

 

Adalgiso Amendola è un economista. Uno studioso concreto che insegna all’Università di Salerno e guarda le cose con il distacco vigile della scienza. Il 17 luglio sarà alla Campana per discutere dell’Obiettivo 8 dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, quello che persegue «una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva e un lavoro dignitoso per tutti».

Nobile intento, ma è realistico?

Per comprendere la natura di questo Obiettivo bisogna partire dal prologo, nel quale si afferma che la vera sfida per l’umanità nel prossimo futuro è sconfiggere la povertà.

E si può fare?

Parzialmente. La difficoltà principale risiede nel fatto che il modello economico prevalente, figlio della politica della deregulation degli anni ‘80, è incentrato sul capitale finanziario. L’Obiettivo 8 invece pone l’attenzione sul lavoro. Per quanto riguarda crescita economica e occupazione dal 2015 a oggi, con l’ovvia eccezione del 2020 flagellato dalla pandemia, alcuni risultati si sono ottenuti, anche se con troppe differenze da Paese a Paese. Il bilancio si può considerare moderatamente positivo. Ma se l’ambizione è quella di costruire veramente un mondo più equo in cui ci sia effettivamente un lavoro dignitoso per tutti è lecito esprimere qualche dubbio sulla sua effettiva realizzabilità. L’Agenda 2030 individua infatti con concretezza una serie di politiche che sarebbe utile porre in essere, ma manca una valutazione sistemica delle radicali modifiche che andrebbero apportate al modello di economia di mercato dei nostri tempi: la cosiddetta globalizzazione finanziaria.

Cosa si può realisticamente migliorare in questa situazione?

Il grado di raggiungimento dei 17 Obiettivi, a loro volta articolati in specifici target, può essere misurato sulla base di indicatori messi a punto dal Palazzo di Vetro o da entità nazionali e sovranazionali. L’Unione europea, ad esempio, attraverso l’Eurostat, elabora annualmente un rapporto a riguardo, che, nel caso dell’Obiettivo 8, misura la crescita economica utilizzando il Prodotto interno lordo (Pil) pro capite, valutando cioè quanto della ricchezza materiale prodotta annualmente in un Paese tocca in media a ogni cittadino. Se da un lato questo riduce l’ossessione per il tasso di crescita del Pil, sul quale in genere si basano le valutazioni sull’andamento dell’economia, dall’altro non riflette fedelmente l’idea di sviluppo sostenibile a cui l’Agenda si ispira. Sarebbe stato meglio fare riferimento all’Indice di sviluppo umano, un indicatore proposto dall’Onu che mette insieme non solo la ricchezza materiale (il Pil, appunto) ma anche la possibilità di accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria, l’aspettativa di vita e il grado di distribuzione del reddito tra gli individui. Bisogna comunque tenere conto del fatto che ogni indicatore di per sé è necessario, ma non sufficiente. Occorre valutarli nel loro insieme.

Facciamo un esempio concreto.

I target da raggiungere sono definiti tenendo conto dello sviluppo di ogni Paese. Sarebbe irrealistico utilizzare per tutti gli stessi criteri. In molte aree del pianeta, specialmente quelle meno sviluppate, anche in presenza di qualche significativo miglioramento, il Pil pro capite, l’occupazione e la qualità del lavoro sono ancora assai distanti da una soglia minima che possa considerarsi adeguata nei Paesi industrializzati. Certo, se si parte da condizioni economiche e sociali estremamente difficili, anche un piccolo passo in avanti fa registrare un miglioramento, che però non può essere considerato sufficiente. Qualcuno potrebbe osservare che i lavoratori sfruttati in alcuni Paesi dell’Africa sono un po’ meno sfruttati di prima, ma comunque restano molto lontani dall’avere un lavoro dignitoso e un pieno riconoscimento dei loro diritti.

Le differenze economiche nel mondo si stanno ampliando?

Il rischio c’è. Ovviamente ciò non dipende dall’insuccesso dell’Agenda 2030, che sta dando comunque risultati, non fosse altro che in termini di maggiore attenzione alla necessità di correggere i molti squilibri presenti nel mondo di oggi. È il funzionamento stesso del sistema della globalizzazione finanziaria a creare le condizioni economiche e sociali che contribuiscono ad accrescere le diseguaglianze tra Nazioni, aree geografiche, gruppi sociali, e negli ultimi decenni, per la prima volta nella storia recente, anche all’interno dei Paesi industrializzati.

Un problema strutturale?

In qualche modo sì. L’idea di fondo sulla quale si basa il sistema è che un aumento della diseguaglianza nelle prime fasi dello sviluppo favorisca la crescita. A lungo andare infatti si dovrebbero generare degli effetti di spillover, di tracimazione: la ricchezza accumulata dai grandi attori dell’economia finirebbe per “gocciolare” anche sulle classi meno abbienti migliorando il livello complessivo delle condizioni di vita e riducendo le diseguaglianze.

A pochi la piscina a molti gli schizzi che arrivano dopo ogni tuffo. Ma funziona?

Questa visione delle cose, basata anche su evidenze statistiche degli anni Sessanta e Settanta, non risulta oggi confermata, specie nei Paesi in via di sviluppo. Tuttavia l’idea che la diseguaglianza vada accettata come effetto collaterale della crescita resta ancora diffusa ed è all’origine della convinzione che un modello incentrato sulla concorrenza e sul capitale finanziario possa favorire l’aumento della ricchezza complessiva e, di conseguenza, il benessere di tutti.

Sembra però che questo “effetto transitorio” si stia rivelando permanente.

Nel corso del XX secolo abbiamo avuto la sensazione che stessimo andando verso un mondo più eguale. E questo, soprattutto negli anni d’oro del secondo dopoguerra, è avvenuto nella maggior parte dei Paesi industrializzati, per esempio con il miglioramento delle condizioni di vita di quella che un tempo si chiamava la classe operaia. Ma questo andamento si è dimostrato essere solo temporaneo, perché dalla fine del ‘900 e soprattutto nell’ultimo ventennio, la globalizzazione dell’economia e l’aumento del rendimento del capitale hanno notevolmente accresciuto i divari tra ricchi e poveri, erodendo ruolo e condizioni economiche della classe media.

I soldi producono più soldi del lavoro?

La concentrazione del reddito in porzioni molto ridotte della popolazione è aumentata. Oggi un manager può guadagnare anche 100 volte di più di un impiegato della stessa azienda, cosa che in passato non avveniva. La difficoltà di intervenire su questi squilibri dipende anche dal fatto che, come ha spiegato il Premio Nobel Joseph Stiglitz, questo tipo di divari, ad esempio nelle retribuzioni, riflettono meccanismi tutto sommato efficienti dal punto di vista delle singole imprese. I manager, per esempio, ricevono una parte della loro retribuzione sulla base all’andamento azionario dell’azienda che dirigono. Il loro impegno sarà quindi teso a far aumentare il valore delle azioni, anche a costo di intraprendere politiche di sviluppo ad alto rischio, che possono generare instabilità contagiose. In particolare, quando da qualche parte nel mondo il sistema finanziario collassa, si possono innescare crisi di carattere globale, come quella del 2008-2010, che, innescata nel settore dei mutui subprime negli Usa, ha finito con l’investire il sistema bancario e poi il settore reale in tutti i Paesi industrializzati.

Adalgiso Amendola

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