Pur se caratterizzato da una lunga, e talvolta drammatica, storia di processi di colonizzazione forzata (compiutasi fra il 1833 e il 1914) e di tormentate lotte per la conquista delle identità nazionali (conclusesi durante la “guerra fredda”), mai come in questo periodo il Continente africano sta formando oggetto delle, non certo disinteressate, attenzioni dei maggiori attori della politica contemporanea. Basti pensare alle visite lungo l’arco degli ultimi 12 mesi di Emmanuel Macron, Olaf Scholz, Sergei Lavrov, Qin Gang (nuovo ministro degli Esteri cinese), Anthony Blinken, oltre alla nostra premier Giorgia Meloni, sul cui viaggio in Algeria, Libia ed Etiopia torneremo brevemente in conclusione di articolo.

Al di là degli Stati della “vecchia Europa” che si sforzano, con risultati non esaltanti, di mantenere viva una presenza costruita in epoca coloniale in condizioni decisamente meno “globalizzate” delle attuali (nel periodo sopra ricordato la cosiddetta “spartizione” dell’Africa era di loro esclusivo appannaggio), oggi operano su quel Continente praticamente tutte le grandi e medie potenze mondiali.

In particolare, vi è ormai ampiamente consolidata la presenza della Repubblica Popolare cinese (Rpc). Una presenza destinata a rafforzarsi ulteriormente con il trascorrere del tempo, in base alla considerazione che la Rpc, in cui vive un quinto della popolazione complessiva e che detiene il secondo maggior apparato produttivo al mondo, possiede solo il 7 per cento delle terre coltivabili ed è risaputamente povera in materie prime e fonti di energia. Una complementarietà, quella fra Cina e continente africano, che si traduce per il secondo, nell’immediato in un ben accolto incremento delle risorse disponibili ma, in una visione di più lungo raggio, in una posizione di sempre più marcata dipendenza.

Specialmente in un’ottica europea il quadro di cui sopra assume toni ulteriormente preoccupanti considerando il fatto che l’esempio cinese è stato rapidamente preso a modello da una serie di altri attori, certo non comprimari, quali Turchia, Stati del Golfo e India.

A una diversa impostazione di fondo risponde, viceversa, la penetrazione, anch’essa sempre più evidente nel corso degli ultimi anni, della Federazione Russa (Fr), basata su considerazioni attinenti pressoché esclusivamente alla sfera politica e militare. In particolare, attraverso la messa a disposizione, a favore di una serie di regimi semi-dittatoriali, di poche migliaia di elementi paramilitari (le tristemente note milizie Wagner), Mosca è riuscita a ritagliarsi un consistente livello di influenza su un gruppo nutrito di Paesi, offrendo loro un bene apprezzato, vale a dire la sicurezza da possibili attacchi destabilizzanti.

Partendo da Nord e scendendo sulla carta geografica, il primo di essi è la Tripolitania. Vengono poi il Mali, il Burkhina Faso, il Sudan (attualmente in preda a sanguinosi scontri che oppongono esercito e paramilitari costati la vita a centinaia di civili e che hanno costretto i Paesi occidentali a organizzare in fretta e furia complesse operazioni di evacuazione dei propri connazionali residenti), la Repubblica Centrafricana, la Repubblica democratica del Congo (Rdc), il Congo Brazzaville e infine il Malawi.

In tutte le situazioni menzionate, lo schema adottato dal Cremlino risulta tanto semplice quanto efficace: ampio sostegno, militare ed economico (in cui va fatto certamente rientrare il noto “accordo sul grano” stipulato con la Turchia) concesso agli autocrati al potere, in cambio di un loro atteggiamento “comprensivo” in sede di votazioni all’Assemblea Generale dell’Onu sul conflitto in corso con l’Ucraina.

Su questo sfondo, taluni analisti politici sono giunti a domandarsi se esiste fra Cina e Russia un’intesa di massima (ovviamente non divulgata all’esterno) mirante alla spartizione del ricco “bottino africano”, intascandone Pechino i dividendi economici e Mosca quelli geo-strategici.

Anche se tale ipotesi non potrà verosimilmente mai trovare conferma, appare comunque innegabile come le strategie di quelle due grandi capitali siano caratterizzate, o perché fra loro coordinate o in modo spontaneo, da un chiaro connotato anti-occidentale.

Il riconoscimento di tale oggettiva minaccia ha spinto nel marzo di quest’anno il presidente Macron a effettuare un periplo in quattro Paesi (Gabon, Angola, Congo Brazzaville e Repubblica Democratica del Congo) per ribadire la volontà di Parigi di continuare a rappresentare un solido punto di riferimento sul continente. Occorre riconoscere che l’accoglienza riservatagli da autorità e popolazioni locali non è risultata, in generale, delle più amichevoli. Il punto più basso è stato raggiunto a Kinshasa, capitale della Rdc, dove Macron è stato sì salutato da un tripudio di bandiere blu-bianco-rosse, ma con i colori disposti in maniera orizzontale, proprio come il vessillo russo.

Ritornando a inizio articolo, un breve commento si impone anche sul viaggio compiuto a fine gennaio in Algeria e Libia dalla premier Meloni, e “bissato” a metà aprile dalla missione in Etiopia, al fine di informare i rispettivi governi dell’esistenza di un progetto italiano di cooperazione, denominato «Piano Mattei».

Senza che sui contenuti dello stesso si conoscano per ora più compiuti elementi (gli stessi dovrebbero essere resi noti nel corso del summit intergovernativo Italia/Africa del prossimo ottobre), appare comunque assodato che le fonti energetiche (forniture di gas e petrolio) e il fenomeno migratorio (nel tentativo di fermare gli attuali fortissimi flussi) ne formino i due focus centrali. Si tratta, d’altronde, di tematiche assolutamente prioritarie nella agenda politica, economica e sociale dell’Italia.

Con la precisazione che l’iniziativa potrebbe progressivamente estendersi anche ad altri Paesi dell’area mediterranea, l’osservazione conclusiva del nostro editoriale, a carattere più generale, appare la seguente. Per tentare di arginare, prima che divenga troppo tardi, il sempre più marcato coinvolgimento sul “continente nero” delle temibili “demokrature”, in primis la cinese e la russa, è vitale per l’Unione europea impartire alla propria politica africana una decisa correzione di rotta, accantonando, o comunque riducendo, la portata degli interventi assistenziali a fondo più o meno perduto, per sostituirli con rapporti di cooperazione qualificati e responsabili, oltre che stipulati su base paritaria.

In connessione con quanto precede, è altresì necessario evitare, per il futuro, di imporre a quel continente regole e principi che, validi in Europa, appaiono difficilmente esportabili altrove e mettere definitamente fine, nei confronti dei governanti africani, agli atteggiamenti o alle pubbliche dichiarazioni di tenore paternalistico, retaggio di un passato ormai scomparso. Oltretutto, persino in campo migratorio esistono ambiti di cooperazione insospettati, se si riflette sulla circostanza che una consistente parte dei flussi di persone originati dal continente (circa un terzo del totale) ha come destinazione finale non già l’Europa ma altri Paesi africani.

Di tempo a disposizione ancora ce n’è, ma non va assolutamente sprecato, se si vuole evitare che nelle loro future missioni africane i rappresentanti europei scoprano, a loro spese, che i posti al tavolo delle trattative con le locali autorità, sin qui loro riservati, risultano ormai stabilmente occupati dai nuovi protagonisti della scena politica internazionale e che, come capitato a Macron, anche le piazze, prendendone atto, si comportino di conseguenza.

 

Il Reggente, Marco Marsilli

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