Il repentino cambiamento di rotta del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump sul tema della imposizione di dazi a 360 gradi, un argomento molto sensibile tanto dal punto di vista economico-finanziario che politico, si presta ad alcune considerazioni che vanno oltre il contesto strettamente tecnico, sul quale lo scrivente non avrebbe, oltretutto, competenze sufficienti per disquisire.
In tale analisi è prima di tutto corretto sgomberare il campo dalla tentazione di interpretare il voltafaccia dell’attuale inquilino della Casa Bianca, come qualcuno sembra intenzionato a fare, alla stregua di una sua «lodevole disponibilità» a riconoscere, all’occorrenza, i propri errori e a volerli rapidamente emendare.
Il giudizio prevalente (al quale ci associamo) sa viceversa di forte critica nei confronti di un leader che considera talmente inattaccabile la propria posizione nel «gotha dei potenti» da sentirsi slegato, nelle sue pubbliche esternazioni, da evidenti doveri di coerenza e legittimato, di conseguenza, a sostenere con uguale convinzione sia una determinata tesi sia, a brevissima distanza di tempo e senza alcuna convincente diversa motivazione, l’esatto contrario della stessa.
Del resto le avvisaglie di un accentuato distanziamento di Trump da quella che in qualsiasi professione si definisce “correttezza deontologica” erano emerse con chiarezza già in occasione della recente campagna elettorale, risultata peraltro vittoriosa, a conferma di sue capacità (e risorse) comunicative molto al di sopra della media.
Per limitarsi al settore internazionale, l’allora sfidante al più importante incarico istituzionale del pianeta si era contraddistinto per roboanti proclami in merito all’asserita sua capacità di portare a positiva soluzione nel brevissimo periodo («within 24 hours») tanto la guerra russo/ucraina che il conflitto israelo/palestinese. A distanza di oltre tre mesi dal suo insediamento, è chiara la constatazione di come le due crisi siano ben lontane dall’aver trovato una qualsiasi forma di accomodamento e di come per alcuni aspetti (ad esempio la situazione umanitaria a Gaza, con la popolazione palestinese ridotta ormai allo stremo) le stesse presentino tratti addirittura più preoccupanti rispetto a quelli vigenti all’epoca della così vituperata amministrazione democratica di Joe Biden.
In effetti pochi dubbi sussistono sul fatto che, in relazione a un leader di governo, la credibilità rappresenti una delle doti più importanti e apprezzate, tanto da parte dei colleghi stranieri che del variegato mondo degli interlocutori nazionali. Nel caso di una personalità di vertice dalla quale dipendono in larghissima misura le sorti di imprese, commerci ed esistenze private, sono esattamente gli atteggiamenti ondivaghi, portatori di decisioni contraddittorie, a rappresentare il pericolo da evitare a qualsiasi costo.
Nel caso di specie, sono stati i “poteri forti” all’interno degli Stati Uniti, vale a dire le saldissime constituencies di finanza e industria, a far desistere Donald Trump dall’applicare erga omnes tariffe di inedita portata, una misura che avrebbe finito per danneggiare in maniera significativa, salvo poche e probabilmente non casuali eccezioni, proprio molti consolidati interessi “a stelle e strisce”. Come noto, tali dazi non sono stati revocati tout court ma sottoposti a una misura sospensiva di 3 mesi, fatta salva l’immediata applicazione di un’aliquota del 10 %. Il tutto confidando, ma questa è ormai la regola e non l’eccezione, nell’assenza di un nuovo ripensamento presidenziale.
Se la reazione del Continente europeo - al netto della ampiamente condivisa esigenza che i 27 Paesi membri mantengano la loro unità, parlando con una voce sola con gli interlocutori d’oltre Atlantico - appare oscillare fra l’adozione di misure di ritorsione e la disponibilità al negoziato con Washington, diverso è il caso per la Repubblica popolare cinese (RPC) per la quale le misure tariffarie rimangono pienamente in vigore, salvo limitate eccezioni (in primis smartphone e pc).
Di guānshuì (traduzione in mandarino di «dazio») sentiremo di conseguenza molto parlare nelle prossime settimane e, probabilmente, mesi, anche a causa dell’ atteggiamento di rigidità che Pechino sembrerebbe orientato ad adottare nei confronti dei vincoli americani. Una situazione di “muro contro muro”, insomma, esemplificata da tariffe elevatissime (+ 145% nel caso di Washington, + 84% nella direzione opposta, secondo rilevazioni certamente non definitive), potenzialmente in grado di alimentare una vera e propria “guerra commerciale”.
Di quest’ultima non appare difficile prevedere l’esito: nessun vero vincitore e, fra i “vinti”, anche un consistente numero di Paesi, distribuiti nei cinque continenti, del tutto estranei alla faida fra le due superpotenze.
In conclusione, prescindendo dalla loro appartenenza al campo democratico o repubblicano, dagli anni ‘80 sino all’ingresso nella Casa Bianca di «The Donald», tutti i presidenti americani sono stati impegnati in una sorta di “scommessa” sulla Cina, al fine di integrarla nel via via crescente processo di globalizzazione nonché, seppur in una prospettiva non certo ravvicinata, alla progressiva apertura verso l’esterno di un regime all’epoca talmente autocratico da risultare pressoché impenetrabile.
Su questo sfondo, se va accettato il fatto che Uncle Sam e Dragone possano attraversare fasi di distanziamento e freddezza nei rispettivi rapporti, non apparirebbe viceversa giustificabile trascurare l’esistenza di indicatori di aperta conflittualità a lungo termine, seppur confinati, almeno per ora, alla “sola” area commerciale.
Il Reggente, Marco Marsilli



