IL CARDINALE MATTEO ZUPPI ALLA CAMPANA

 

Il 4 ottobre scorso, in occasione del centenario dal primo rintocco di Maria Dolens, nell’Auditorium Alberto Robol si è svolto un «dialogo per la Pace» tra il cardinale Matteo Zuppi e l’onorevole Mario Raffaelli moderato da Gianni Bonvicini. Pubblichiamo di seguito uno stralcio dall’intervento del porporato.

Nel trasformare ciò che dà morte in qualcosa che chiama alla vita, la Campana dei Caduti di Rovereto ci parla ancora. È un segnale che scandisce il tempo, che raduna la comunità, che ci ricorda la dignità e il valore della vita. Ma non solo: la Campana è una grande sveglia. Non serve soltanto a chiamarci a raccolta, ma a dirci con forza: svegliatevi! Svegliatevi dal torpore, dalla rassegnazione, dall’indifferenza che ci fa dimenticare il dolore degli altri.

Oggi, nel centenario del suo primo rintocco, la Campana risuona in un mondo che sembra non aver imparato nulla. Malgrado quello che accade, stentiamo a capire. Non impariamo mai. E allora mi chiedo – e vi chiedo – impareremo mai a vivere, come cantava qualcuno, “senza ammazzare”? Quante palle di cannone ci vogliono ancora per capire?

La risposta è qui, in questa Campana. In questo bronzo che ha trasformato le armi in voce, la morte in memoria, la memoria in impegno. Qui sta il senso della nostra presenza: non celebrare un passato lontano, ma assumere una responsabilità nel presente. La Campana non è un oggetto da museo, ma una coscienza che ci chiama.

Un secolo fa, nel 1925, questa Campana suonò per la prima volta, come un grido d’amore lanciato verso un’umanità ferita. Oggi, che vediamo guerre in tante parti del mondo e una Pace più fragile di quanto pensassimo, quel gesto ci ricorda che la Pace non è mai scontata. La memoria è fondamentale, ma non basta: non è un fine, è un punto di partenza.

Sessant’anni fa, nel 1965, proprio il 4 ottobre, Paolo VI parlò all’ONU. Disse parole profetiche: «Mai più la guerra». Lo fece «con la voce di tutti i caduti», come disse lui stesso. Ebbe il coraggio di parlare di Pace in un mondo ancora diviso. Quel coraggio ci interpella oggi, in un tempo che ha tanto bisogno di profezia e poca voglia di ascolto.

La Chiesa, per sua natura, è chiamata a essere operatrice di Pace.

Non spettatrice, non commentatrice, ma operatrice. Tutti i cristiani lo sono, o dovrebbero esserlo. Non sempre ci riusciamo, lo so bene, ma la vocazione resta quella: essere costruttori di Pace.

Essere operatori di Pace significa essere disarmati, perché solo chi è disarmato può davvero disarmare gli altri. Non basta parlare di Pace, bisogna viverla. Se predichiamo la Pace ma nei fatti restiamo aggressivi, se non rinunciamo alla violenza – anche quella delle parole – allora la nostra voce si svuota. Diventa rumore, retorica, talvolta persino scandalo. La Pace non si proclama soltanto: si prepara, si costruisce, si testimonia.

Ripudiare la guerra è un atto di coscienza. Non è una formula politica o diplomatica: è la conversione del cuore. Ripudiare la guerra significa trasformare la memoria in consapevolezza. Le frontiere restano, ma – come ricordava Paolo VI – «non più contro gli altri, non più senza gli altri, ma insieme». La Pace non è l’assenza di confini, ma la capacità di abitarli con rispetto e con fiducia.

La guerra, qualunque guerra, è sempre inutile. Ogni conflitto aggiunge dolore al dolore, e lascia cicatrici che non si rimarginano.

Ho ascoltato, di recente, il racconto di una figlia che parlava del padre, sopravvissuto alla prima guerra mondiale, testimone dell’orrore dei gas. E ho incontrato donne ucraine che cercavano i corpi dei loro cari scomparsi, non avevano neppure un luogo dove piangere. In quei volti ho visto il significato vero del Milite Ignoto: la sofferenza di chi non ha neanche un segno per ricordare.

Ecco perché la Campana è un impegno. È la voce di chi non può più parlare, ma anche la voce di chi deve agire. Ogni suo rintocco è una domanda: “E tu, cosa fai per la Pace?”. Maria Dolens trasforma la morte in richiamo alla vita, la tragedia in responsabilità. È un sacramento civile e spirituale insieme.

Oggi celebriamo anche san Francesco, genio e poeta della Pace. Lui che da giovane voleva essere cavaliere, restò tale, ma nel senso della cortesia, dell’umanità, della fraternità. In lui vediamo il volto di un uomo disarmato che disarma. Il suo incontro con il lupo di Gubbio è più che una leggenda: è un manuale di Pace. Tutti volevano uccidere il lupo, Francesco invece lo chiamò “fratello”. Non negò il male, lo riconobbe e ne cercò la causa. Gli disse: «Io so perché lo fai. Hai fame. Se ti daremo da mangiare, smetterai?». E così fu.

Francesco non eliminò il nemico, lo riconciliò. Gli tolse la causa del male. Insegnò a Gubbio che la Pace non si impone, si costruisce insieme. Quando il lupo morì, tutti ne furono addolorati: era diventato parte della comunità. Questa è la Pace. Non l’assenza del conflitto, ma la sua trasformazione. Non l’illusione di un mondo senza differenze, ma la capacità di vivere le differenze come fraternità.

Ecco perché dico che l’operatore di Pace è l’unico vero realista. Si fa presto a dire “Pace”. La Pace è possibile, non è ingenuità è intelligenza del cuore. Preparare la Pace è l’unico modo per evitare la guerra. Lo disse Paolo VI citando Kennedy: «L’uomo porrà fine alla guerra o la guerra porrà fine all’umanità».

Siamo peggiorati, temo. Esiste persino un “orologio nucleare” che misura quanti secondi mancano alla catastrofe. Ma non comprendiamo davvero che cosa significhi la distruzione di milioni di persone in pochi istanti. Forse per questo la Campana serve: perché ci sveglia. Ci ricorda che la Pace non è un sogno da anime belle, ma un’urgenza da uomini veri.

La Pace si prepara togliendo le cause dell’odio, ascoltando, riconciliando. E questo, credetemi, è possibile. Sempre. 

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