ACCADE ALL'ONU
GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA PACE

 

«Ci sono cose da non fare mai, né di giorno né di notte, né per mare né per terra: per esempio, la guerra». Gianni Rodari sapeva parlare ai bambini, e anche a tutti quelli che conservano un pizzico di capacità di stupirsi ogni tanto, emozionarsi quando capita, indignarsi se serve e provare a cambiare qualcosa quando si può. Fermare tutti i conflitti è un’idea naïf, ma almeno sapere quanti ce ne sono e ricordarsi che in certe zone del mondo non è scontato uscire di casa senza rischiare di saltare su una mina antiuomo può essere utile. Un momento adatto per farlo è la Giornata internazionale della Pace, che per volere delle Nazioni Unite si celebra ogni anno il 21 settembre. In un primo tempo era stata fissata per il terzo giovedì del mese, ma una risoluzione del 7 settembre 2001 ha istituito un giorno unico, sempre lo stesso, difficile da dimenticare o da schivare.

Lo scopo dell’iniziativa è quello di sollecitare organizzazioni e individui a concentrarsi nella promozione di azioni educative sul tema della pace globale. In un mondo afflitto dalle guerre si tratta di una giornata particolarmente utile a ricordare almeno le situazioni di crisi più gravi.

Guardando i telegiornali ogni giorno ci si trova di fronte a immagini tremende di distruzione e morte. Spesso non ce la facciamo a resistere e dobbiamo cambiare canale. Comprensibile. Purtroppo però la situazione è molto più grave di quella che emerge dai notiziari. La maggior parte dei conflitti non sono nemmeno segnalati dai mass media, le telecamere non arrivano a testimoniare massacri che si consumano in zone del mondo completamente fuori dai radar dell’informazione. Un po’ perché è difficile seguire tutto, un po’ perché se non ci sono ripercussioni dirette sul nostro stile di vita e sui nostri territori tendiamo a ignorare le crisi.

Nel 2021 i conflitti toccano comun- que diversi continenti. Si concentra- no in Africa e Medio Oriente, ma si registrano scontri anche in Ameri- ca. La fascia calda è quella intorno all’equatore. Secondo gli esperti il motivo più diffuso per cui si combatte è il controllo dell’acqua, ma se ne parla troppo poco.

Lo scopo è quello di sollecitare tutti a concentrarsi sulla promozione di azioni educative per favorire il dialogo

Nella storia, del resto, le ragioni addotte per dichiarare una guerra sono sempre state legate a grandi ideali. Si tratta quasi sempre di difendere l’onore, la tradizione, la propria identità, le conquiste dei padri. Si parte pieni di speranza nel futuro, di solito cantando, nella convinzione che durerà poco. Si torna in genere dopo diversi anni, in pochi, senza avere capito a pieno a cosa sia servito. Gli storici, poi, spiegano ai pronipoti dei combattenti che le ragioni erano strategiche e geopolitiche, in una sola parola economiche. I nostri discendenti, probabilmente studieranno a scuola che attorno al 2020, con l’aumento della popolazione mondiale, i cambiamenti climatici, le piogge più irregolari e l’aumentare delle aree colpite da siccità, la competizione per il “petrolio blu” è cresciuta, con gravi conseguenze in diverse aree del pianeta.

Qualcuno, però, sta segnalando la questione già da un po’. «Se non c’è acqua, la gente comincerà a muoversi. Se non c’è acqua, i politici cercheranno di metterci le mani sopra e potrebbero iniziare a combattere», ha avvertito Kitty van der Heijden, responsabile della cooperazione internazionale per il ministero degli Esteri olandese. «Sono minacce come queste che mi tengono sveglia la notte», ha detto la diplomatica in un webinar ospitato dal World Resources Institute (WRI), un gruppo di ricerca con sede negli Stati Uniti. Secondo il WRI, 17 Paesi affrontano livelli di stress idrico «estremamente elevati», mentre più di due miliardi di persone vivono in Paesi che soffrono di stress idrico «elevato».

L’ultimo rapporto dell’International Crisis Group conferma che in Africa ci sono la maggior parte dei conflitti armati in corso. La Libia è una polveriera, mentre nel Mali stanno aumentando le violenze dopo le dimissioni del presidente Ibrahim Boubacar Keïta seguite a mesi di proteste di massa e a un colpo di stato militare.

Non troppo lontano il Medio Oriente è da sempre nell’occhio del ciclone, e questo passa regolarmente su tutti i mezzi di informazione, ma la Siria non è l’unico Paese in guerra nella regione. La situazione è critica anche in Libano e soprattutto nello Yemen dove non c’è Pace dalla primavera araba del 2011, la rivolta popolare che ha costretto il presidente Abdullah Saleh a dimettersi. Il conflitto che ne è seguito ha causato la morte di oltre 250.000 persone.

Nel 2021 i conflitti toccano diversi continenti Si concentrano in Africa e Medio Oriente, ma si registrano scontri anche in America.

Più della metà delle vittime sono state causate da effetti indiretti degli scontri, come la mancanza di viveri o di cure. Oggi, per il quarto anno consecutivo, il Paese arabo vive la più grave crisi umanitaria al mondo ed è sull’orlo della carestia. Oltre l’80 per cento della popolazione sopravvive al di sotto della soglia di povertà e almeno 20 milioni di persone hanno bisogno di assistenza. Di palestinesi e israeliani nemmeno si parla più, è dato per scontato che le violenze riemergano periodicamente.

Il motivo più diffuso per cui si combatte ai giorni nostri è il controllo dell’acqua.

Intanto, per fare un altro esempio, si combatte anche in Colombia, dove la pandemia ha contribuito a un drammatico aumento della violenza. Diversi gruppi armati hanno cercato di sfruttare la crisi sanitaria per estendere il controllo sul territorio, anche per reclutare nuovi combattenti. A farne le spese sono stati soprattutto i civili, morti a decine sotto le bombe o durante gli attacchi.

La Giornata internazionale della Pace non può bastare a risolvere tutto. Ma può essere un momento per fare il punto, provare a capire che succede e soprattutto per ricordarsi che c’è una cosa da non fare mai «né di giorno né di notte, né per mare né per terra».

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