Lo sviluppo sostenibile è la sfida del prossimo futuro, ma nelle regioni dell’Artico già si presenta come particolarmente difficile. L’Artico può considerarsi una specie di laboratorio del conflitto fra forti interessi e valori divergenti. Di questo ancora si parla poco in Italia: per ovvie ragioni geografiche qui altri problemi sono più evidenti, ma quanto sta accadendo nell’estremo Nord merita attenzione sotto diversi profili.

Il cambiamento climatico è più drammatico lì che altrove. Si dice che “il bianco diventa blu”: immagine suggestiva che potrebbe sembrare poetica, ma rivela un’evoluzione preoccupante. I ghiacci si sciolgono, lasciano spazio al mare che è più caldo: cambia la fauna ittica, cambiano le possibilità di pesca, nuove rotte si aprono alla navigazione, come il passaggio a Nord-Ovest. Sulla terraferma, nuove attività possono essere intraprese, in primo luogo lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo. E le risorse minerarie del sottosuolo sono ricche di materiali essenziali alla tecnologia, basti pensare agli importanti giacimenti di terre rare. Sono situazioni che potranno creare nuovi conflitti di interessi fra gli Stati artici e non solo: la Cina ha presentato un Libro Bianco, in cui si dichiara near-Arctic State e dichiara i propri interessi per la regione.

L’Artico resterà lo stesso? Quali saranno gli effetti del cambiamento in atto sulla vita delle persone che vivono nella regione? Nelle regioni artiche vivono dei popoli indigeni, principalmente Inuit, che si muovono in territori ora appartenenti al Canada, agli Stati Uniti, alla Groenlandia, alla Russia. Abitano quelle terre da tempo immemorabile, i contatti con gli europei sono relativamente recenti. La tribù di Thule ad esempio risale a 2000 anni prima di Cristo, ma solo nel 1818 fu avvicinata da esploratori europei. Gli indigeni vivono in simbiosi con il territorio e la natura, una relazione che ha una profonda dimensione religiosa.

La tutela dei popoli indigeni, il rispetto e la conservazione della loro cultura sono oggi considerati come un valore nel diritto internazionale

La tutela dei popoli indigeni, il rispetto e la conservazione della loro cultura sono oggi considerati come un valore nel diritto internazionale, nell’interesse di tutta l’umanità. Si supera così la teoria assimilazionista del passato, secondo cui gli indigeni dovevano essere educati alla cultura dominante.

La vita tradizionale dei popoli indigeni si svolge in piccole comunità, di cui ciascun individuo si sente parte attiva. Tuttavia, lo sviluppo economico può incidere in modo drammatico: le condizioni di lavoro in una miniera o in una fabbrica sono incompatibili con le abitudini tradizionali in cui la caccia e la pesca erano attività collettive, a contatto con la natura. La vita negli agglomerati urbani vicini alle attività produttive non ha nulla a che vedere con la vita nei villaggi tradizionali.

I cambiamenti nelle condizioni di vita e di lavoro risultano per molti indigeni insostenibili: i suicidi aumentano in modo impressionante anche fra i giovani, ad esempio in Canada si calcola siano 10 volte superiori alla media. Si parla di “danno transgenerazionale” che si riflette anche sulle nuove generazioni, le quali crescono private dei punti di riferimento essenziali della loro cultura tradizionale.

Importante diventa capire chi decide sullo sviluppo di nuove attività? Chi valuta come fare? Quale il ruolo degli indigeni?

A livello di diritto internazionale, il consenso specifico delle popolazioni indigene è necessario solo per misure che comportino il loro spostamento dalle terre ancestrali e la ricollocazione altrove. In passato, misure di ricollocamento forzato furono adottate ad esempio per la costruzione di basi militari o di dighe.

I cambiamenti nelle condizioni di vita e di lavoro risultano per molti indigeni insostenibili e i suicidi aumentano in modo impressionante anche fra i giovani

Gli Stati hanno il dovere di consultare i popoli indigeni. La Dichiarazione delle Nazioni Unite sui popoli indigeni del 2007 prevede infatti un trattamento molto più favorevole, ma non si tratta di norme vincolanti, bensì di un atto di cosiddetta soft law.

Per il resto, il diritto interno in ogni Paese si regola in modo indipendente, si può fare solo qualche cenno a due sistemi fra loro diversi.

In Canada nel 1999, su di una parte dei territori del Nord-Ovest, viene costituito il nuovo Stato del Nunavut, una grande regione autonoma in cui vivono circa 38 000 persone, per la grande maggioranza Inuit. In altri Stati del Canada, vi sono accordi con la popolazione Inuit, che conferiscono loro una ampia autonomia, con il diritto a essere consultati e informati nel caso di nuove attività. Peraltro, spetta all’amministrazione centrale il diritto di sfruttamento delle risorse del sottosuolo, agli Inuit vengono concesse delle royalties.

La Groenlandia è invece abitata da circa 56.000 persone, in larga maggioranza Inuit. La regione fa parte della Danimarca, ma dal 2009 ha un’autonomia quasi totale, con esclusione solo delle materie della politica estera e difesa. Qui pertanto, sono le autorità Inuit che hanno il potere di decidere sullo sfruttamento delle ingenti risorse minerarie, i cui proventi restano alla regione. Molte voci, però, si levano a denunciare che anche in questo caso la popolazione non è veramente consultata nel modo adeguato. Fra gli stessi Inuit, il dibattito sulla opportunità di aprire allo sfruttamento delle risorse minerarie o mantenere una Groenlandia più legata alla tradizione è molto vivo, anche perché l’indipendenza economica potrebbe permettere alla Groenlandia di divenire a tutti gli effetti uno Stato indipendente, ponendo fine al legame con la Danimarca. Gli ultimi sviluppi politici, con la vittoria dei Verdi nelle elezioni del 2021, potrebbero portare a una riduzione delle concessioni di sfruttamento in una prospettiva di maggiore tutela dell’ambiente e delle condizioni di vita tradizionali.

 

Alessandra Pietrobon, Università di Padova

Una veduta della città di Iqaluit, capitale del Territorio Canadese di Nunavut

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