Dal 24 febbraio scorso le nostre giornate sono scandite - tranne che per coloro che hanno volutamente deciso di guardare altrove - da notizie (e immagini) che ritenevamo ormai relegate ai libri di storia. Città ridotte in macerie, corpi, crivellati di colpi o martoriati da ordigni, sparsi in aree urbane così come in remote periferie, migliaia di persone in fuga disperata, a piedi o con ogni tipo di mezzi di fortuna, inseguendo una salvezza per nulla scontata. Essendo trascorsi ormai 30 anni da quegli eventi, possiamo infatti ascrivere in tale categoria anche i tragici fatti di sangue collegati alla dissoluzione dell‘ex Jugoslavia, ora drammaticamente ripropostici sul teatro europeo su scala ancora maggiore.

A fronte di una «dichiarazione di guerra» del presidente russo, adottata in violazione, oltre che del diritto internazionale, anche delle più elementari regole della civiltà (non a caso i giudici della Corte penale internazionale dell’Aja stanno esaminando, ai fini dell’apertura di futuri processi, la sussistenza da parte della leadership di Mosca di crimini ai danni dei civili), la risposta dell’Europa è risultata sorprendentemente (tenuto conto delle precedenti divisioni) ampia, decisa e coesa.

In campo economico, è stato adottato un pacchetto di misure sanzionatorie che, a pochi giorni dalla sua entrata in vigore, ha già arrecato seri contrattempi al sistema russo, quali il fortissimo deprezzamento del rublo e il blocco dei depositi in valuta nelle istituzioni bancarie estere. La forte dipendenza europea (ma non americana) dal gas e dal petrolio di Mosca ne impedisce, almeno nel breve periodo, una incidenza ancora maggiore.

In campo sociale, nessun Paese-membro si è sottratto dall’accogliere migliaia di profughi in precipitosa uscita e dal prevederne con apposite misure, aldilà della fase attuale dell’emergenza, un inserimento più duraturo nei rispettivi territori. Inoltre - e questo è un fatto inedito - in considerazione della eccezionalità della situazione l’Europa non ha nemmeno ignorato le richieste di Kiev (limitatamente, è vero, a quelle praticabili senza il rischio di scatenare un nuovo conflitto mondiale) di ricevere armi, in particolare anti-carro e anti-aereo, al fine di contrastare con maggior efficacia l’avanzata delle preponderanti forze di invasione russe.

Ed è su quest’ultima, sensibile, «apertura» che - prevedibilmente - si sono concentrate le critiche di coloro che vi collegano due aspetti indesiderati: da un lato, il prolungamento dell’agonia della popolazione ucraina, estendendo nel tempo una lotta dall’esito, almeno in apparenza, scontato. Dall’altro, la creazione fra Bruxelles e Mosca, per la fase del post-conflitto, di un muro sempre più elevato e impenetrabile di reciproche accuse, diffidenze e risentimenti. Che al tavolo delle trattative ci si deva, a un dato momento, comunque sedere, è convinzione condivisa, non potendosi davvero ipotizzare che la fase di acuta conflittualità cui stiamo con orrore assistendo si protragga a tempo indeterminato.

Le decise Risoluzioni di condanna adottate dall’Assemblea generale dell’Onu potrebbero precludere al segretario generale un’attività di mediazione

A questo proposito, non può non destare una qualche sorpresa la protratta “passività” dell‘organizzazione preposta alla soluzione di questo tipo di controversie, le Nazioni Unite. L’impressione di molti è che le iniziali, decise Risoluzioni di condanna dell’operato di Mosca adottate a New York dall’Assemblea generale stiano precludendo al segretario generale António Guterres quell’attività di mediazione che sarebbe insita nel suo incarico, aprendo il campo ad (auto)investiture di personalità decisamente meno qualificate anche perché, almeno in alcuni casi, certamente non equidistanti. Per uscire dall’impasse prima che diventi endemica, appare in realtà indispensabile il coinvolgimento diretto delle due super-potenze in funzione di “consiglieri-facilitatori”, nei confronti tanto della Russia (è il ruolo della Cina) che dell’Ucraina (compito spettante agli Stati Uniti). La recente, protratta tele-conferenza fra i presidenti Xi Jinping e Joe Biden, seppur in apparenza priva di risultati concreti, va inquadrata come l’avvio di un percorso, certamente arduo e impegnativo, ma il solo in grado di consentire il raggiungimento di un obiettivo condiviso.

Quanto ai possibili scenari in futuro prospettabili, ogni previsione appare, al momento, prematura, in quanto suscettibile di essere smentita dai fatti. Quello che sembra evidente è che il presidente Vladimir Putin “debba” ottenere un qualche vantaggio dalla sua, pur scellerata, iniziativa.

Trattasi di una conclusione moralmente condannabile, ma che corrisponde agli inappellabili criteri di realpolitik, in base ai quali una grande potenza (e la Russia ovviamente lo è) non può uscire a mani vuote da un conflitto da essa stessa provocato. In merito, si rivelerà sufficiente il riconoscimento dell’indipendenza delle repubbliche di Lugansk e di Donetsk in aggiunta alla definitiva incorporazione nel territorio della Federazione Russa della Crimea e, forse, anche del resto del Donbass?

Per superare la crisi il presidente Putin dovrà ottenere un qualche vantaggio dalla sua, pur scellerata, iniziativa

O sarà piuttosto necessario prevedere anche la neutralità e la demilitarizzazione dell‘ intero stato ucraino? La recente ammissione del presidente Volodymyr Zelens’kyj (peccato per un timing non proprio tempestivo...) circa l’impossibilità per l’Ucraina di aderire alla Nato, servirà ad avvicinare le parti, sgombrando il campo dall’asserito principale motivo russo per l’aggressione?

Inoltre, come evolverà nei prossimi anni l’ordine mondiale? Un sistema multipolare, incentrato su più “cabine di regia” (con la Cina e altri Paesi “emersi“ in posizione di preminenza) prenderà il posto, come da più parti reclamato, dell’odierno unipolarismo, basato sulla leadership degli Stati Uniti e dell’Occidente in quanto tale? Quest’ultimo sistema, ereditato dal combinato disposto delle evoluzioni geopolitiche derivate dal secondo dopo guerra e della caduta del Muro di Berlino, appare oggettivamente esposto a critiche sempre più serrate e diffuse. Quanto precede è dimostrato inequivocabilmente dalla la circostanza che una serie di “leader regionali” a grande rilevanza strategica, quali Cina, India, Pakistan e Sud Africa, non abbiano condannato in sede Onu l’aggressione russa, privilegiando una, decisamente meno schierata, astensione dal voto.

Due parole, infine, sul coinvolgimento della Fondazione Campana dei Caduti in questo drammatico frangente della storia europea. Lo scorso 6 marzo il Colle di Miravalle ha ospitato un evento di solidarietà al popolo ucraino, coronato da una grandissima partecipazione di comunità, nel riconoscimento dell’esistenza di una tragedia nazionale alla quale si sommano gli innumerevoli drammi personali, a volte fin troppo impietosamente registrati, con un occhio di troppo alle tirature, dagli organi di informazione di tutto il mondo.

Appare indispensabile il coinvolgimento diretto di Stati Uniti e Cina come “consiglieri-facilitatori"

In parallelo, un analogo sentimento di vicinanza va rivolto anche al popolo russo, ormai sottoposto a un regime simil-dittatoriale che ne sanziona implacabilmente ogni manifestazione critica rispetto al potere costituito. In tale contesto, pesa anche la sconcertante presa di posizione dei vertici del Patriarcato ortodosso di Mosca, che hanno definito l’aggressione militare del Cremlino una vera e propria «guerra di civiltà» contro comportamenti assolutamente leciti (vedasi i diritti delle comunità LGBT) nel resto dell‘ Europa.

Mentre la inconfondibile voce di Maria Dolens potrà risuonare, alta e chiara, anche in ulteriori eventi a favore della Pace, la Fondazione ha deciso che le bandiere di Ucraina e Federazione Russa, esposte a fianco di altre 100 lungo il «Viale delle Nazioni» della nostra area monumentale, non verranno, come le rimanenti, sottoposte al previsto ricambio annuale.

Gli attuali vessilli, segnati dell’usura del tempo, continueranno ad essere issati a tempo indeterminato, sino cioè al raggiungimento di un’intesa negoziale. Gli strappi e le sfilacciature che già ora vi compaiono costituiranno, man mano che si faranno più evidenti, la testimonianza ottica tanto della resilienza e dell’eroismo del popolo ucraino che della fiducia riposta nella capacità di quello russo a mantenere viva la voce del dissenso interno. Il coraggio della giornalista Maria Ovsyannikova e delle decine di migliaia di dimostranti incarcerati in quel Paese per essersi opposti alla guerra, ci mostra che questo è realizzabile.

 

Il Reggente, Marco Marsilli

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