Dopo la approfondita disamina del conflitto russo/ucraino svolta nel precedente editoriale, era mio intendimento dedicare a una diversa area geografica la riflessione di questo mese.

Mi induce a desistere da tale proposito una breaking news di straordinaria rilevanza, il mandato di cattura emesso in data 17 marzo dalla Corte Penale Internazionale (Cpi) dell’Aia nei confronti del presidente russo Putin per crimini di guerra, precisamente «per avere deportato bambini e adolescenti ucraini in Russia». Di un provvedimento analogo è risultata, in parallelo, destinataria la Commissaria per i diritti dei minori, Maria Lvova-Belova, diretta responsabile dei trasferimenti forzosi dai loro luoghi di residenza dei giovani ucraini (molti dei quali orfani di guerra o rifugiati del Donbass) al fine di una “accoglienza” presso centri assistenziali pubblici o famiglie russe.

Nella scontata difficoltà di quantificare con precisione un fenomeno di tale odiosa gravità, indicazioni attendibili situano il numero delle deportazioni ben oltre i 10.000 casi.

A firmare l’ordine di cattura, giunto a conclusione di indagini iniziate in pratica già all’indomani dell’invasione delle truppe di Mosca e in collaborazione con la magistratura ucraina, tre giudici della Cpi, fra i quali l’italiano Rosario Aitala.


In seguito al provvedimento, il presidente Putin e la sua stretta collaboratrice sono ormai passibili di arresto immediato in caso di ingresso in uno dei 123 Stati firmatari dello Statuto adottato dalla Conferenza di Roma nel 1998 ed entrato in vigore 4 anni più tardi.

Pur dovendosi riconoscere la concreta irrealizzabilità di tale ipotesi (essendo il Capo del Cremlino notoriamente immune da qualsiasi senso di colpa e, di conseguenza, da ogni proposito di auto-consegna ai giudici) non appaiono però nemmeno fondate le stizzite reazioni provenienti da Mosca (aventi nel “falco” vicepresidente Medvedev l’abituale rozzo portavoce) circa il carattere di “carta straccia” rivestito dal mandato di cattura.

Certo, la Federazione fa parte del contingente di Paesi (ai quali per inciso appartengono, a causa delle fortissime pressioni esercitate dal Pentagono, anche gli Stati Uniti) che per il fatto di non avere né a suo tempo firmato né successivamente aderito al predetto Statuto può, almeno in teoria, sostenere di non ritenersi vincolato dalle sue disposizioni. Appare al tempo stesso evidente, al di là di ogni ragionevole dubbio, come l’avvenuta incriminazione nonché le collegate, penalizzanti restrizioni di movimento infliggano un durissimo colpo allo “status” internazionale di uno dei più importanti leader mondiali, equiparandolo al rango, ben più modesto, di personaggi (l’ex dittatore sudanese Omar al-Bashir, l’ex collega libico Muammar Gheddafi, l’ex presidente serbo Slobodan Milosevic) risultati in passato destinatari di analoghi provvedimenti. Ed, inoltre, a una più ponderata riflessione non può non apparire chiaro come lo stigma della Corte vada ben oltre la singola personalità colpita, seppur di vertice, investendo in pieno anche la credibilità politica di tutta una classe dirigente che, sul piano nazionale, continua compatta, nonostante gli evidenti tratti criminali, a riconoscerne la leadership.

Il caso ha poi voluto che il 40o incontro fra gli attuali presidenti russo e cinese avesse luogo, a Mosca, praticamente all’indomani della incriminazione di Putin. Sul piano formale, la visita di Xi Jinping non si è, ovviamente, allontanata da un percorso ben sperimentato. Rinnovate dichiarazioni pubbliche di indissolubile partnership, firma di accordi e intese bilaterali (secondo lo schema: idrocarburi in cambio di tecnologia avanzata di vario genere), condivisa valorizzazione di un grande spazio euroasiatico, in nome di un rinnovato multipolarismo e in funzione anti atlantica e anti occidentale. Nel “menu” a più portate non è potuta nemmeno mancare, da parte dell’ospite, la reiterazione di quella “neutralità benevola” che è riscontrabile anche nella proposta di Piano di Pace cinese in 12 punti, oggetto di ampia bocciatura internazionale per i suoi caratteri di vaghezza e, persino, contraddittorietà (al tempo stesso va riconosciuto che di un piano alternativo, pur in presenza di un consistente numero di organismi multilaterali, non esiste dopo oltre un anno di conflitto alcuna traccia).

Ciò premesso, al di là delle difese d’ufficio e delle sbandierate assicurazioni di “amicizia del cuore”, non appare certo difficile riconoscere che questa specifica visita a Mosca di Xi Jinping ha inaugurato, nella sostanza, un modello nuovo di rapporto russo/cinese. Una relazione non più all’insegna di un sostanziale equilibrio di forze e bilanciamento di interessi, ma d’ora in poi contraddistinta da una sempre più marcata dipendenza, politico/militare, geo-strategica ed economico-finanziaria, di Mosca da Pechino. Le conseguenze del forzoso allontanamento da una parità di fatto, nonostante gli sforzi russi di mantenerle almeno nell’immediato sotto traccia, non mancheranno comunque di manifestarsi, e in maniera consistente, nel più lungo periodo.

Per concludere, cerchiamo di richiamare alla memoria quale fosse la oggettiva situazione internazionale goduta dalla Russia nel febbraio 2022, alla vigilia della scellerata aggressione. Convinzione pressoché unanime che la mobilitazione decisa da Mosca lungo i propri confini rispondesse solo a esigenze di addestramento delle truppe, senza alcuna intenzione aggressiva; dichiarazioni di vari politici occidentali (fra i quali Macron e Scholz) circa la necessità per la Nato di rinunciare a nuove adesioni; manifestata volontà statunitense di evitare ogni forma di coinvolgimento nell’Est Europa con collegata disponibilità a operare concessioni; ampio riconoscimento circa la indispensabilità, per l’Occidente, delle forniture energetiche russe, con flussi da garantire anche in chiave futura.

In breve, una “guerra” già vinta in anticipo da Mosca senza la necessità di sparare un solo colpo o di perdere un unico soldato, si è trasformata per Vladimir Putin, a causa di una perversa combinazione di impossibili rivendicazioni neo-imperiali e di gravissima sottovalutazione delle reazioni del Paese aggredito e dei suoi alleati, in una sorta di vicolo cieco, in un percorso a ostacoli sempre più impervio e sempre più privo di opzioni di uscita.

Alla luce di quanto precede, il noto adagio di un nostro ex presidente del Consiglio secondo il quale «il potere logora chi non lo esercita» andrebbe per lo meno aggiornato con l’inciso «…a meno che non faccia perdere il lume della ragione a chi lo detiene». Il nuovo “Zar” ne resterà, probabilmente a vita, l’esempio più calzante.

 

Il Reggente, Marco Marsilli

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