APPELLO DELL’ARCIVESCOVO PAUL RICHARD GALLAGHER
LA DIPLOMAZIA VATICANA AGISCE PER FACILITARE LA PACE TRA LE NAZIONI
A un ambasciatore latinoamericano adulante che descriveva la diplomazia pontificia come "la prima del mondo" il cardinale Domenico Tardini, segretario di Stato alla fine degli anni Cinquanta, rispose con un sarcastico "figuriamoci la seconda!". Oltretevere lavora di solito gente concreta, che ama focalizzare l’attenzione su obiettivi realizzabili, magari di lungo periodo. Si sa che la Chiesa pensa su arcate temporali molto ampie e quello che storicamente cerca di evitare è il rischio di limitarsi a osservare gli avvenimenti, di valutarne la portata, segnalare quello che non va, elevare “vibrata protesta”, e finire per rappresentare una sorta di voce critica della coscienza, spesso anche fuori dal coro. Avere degli obiettivi chiari è rassicurante, sostenerli con argomentazioni forti è anche stimolante, ma non basta, bisogna anche fare qualcosa, possibilmente con continuità. Più o meno la linea è questa. È difficile, occorre perseveranza e un progetto preciso pensato allo scopo di "spezzare i meccanismi dell’indifferenza oggi dilaganti".
"Quello che ci dicono gli esperti è che non basta il lavoro delle Cancellerie, serve anche il nostro"
L’idea è sempre quella, di attuale c’è l’assoluta necessità di metterla in pratica in tempi ragionevoli. A riproporla in questi giorni è un negoziatore di antico corso, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, che ha dedicato un lungo intervento ufficiale alle strategie della Diplomazia della Santa Sede. In occasione del 40° anniversario della firma dell’Accordo con il Perù, il segretario per i Rapporti con gli Stati ha sottolineato che "la Santa Sede è chiamata ad agire per facilitare la convivenza fra le varie Nazioni e per promuovere la fraternità tra i popoli, dove il termine fraternità è sinonimo di collaborazione fattiva, di vera cooperazione, concorde e ordinata, di una solidarietà strutturata a vantaggio del bene comune e di quello dei singoli". Insomma non un generico appello a volersi bene, ma l’idea di un’attività concreta, ognuno con le proprie prerogative e con le risorse a disposizione, verso un obiettivo preciso: una convivenza serena e fattiva. Frasi sentite più volte nei momenti di riflessione che la Fondazione organizza periodicamente.
"Muoversi sullo scenario internazionale non per garantire una generica sicurezza, ma per sostenere un’idea di pace come frutto del rispetto delle norme internazionali"
A indicare la strada, ha spiegato il diplomatico, è stato direttamente Papa Francesco, chiedendo alla Santa Sede "di muoversi sullo scenario internazionale non per garantire una generica sicurezza, resa più che mai difficile in questo periodo di perdurante instabilità e marcata conflittualità, ma per sostenere un’idea di pace come frutto di giusti rapporti, cioè di rispetto delle norme internazionali, di tutela dei diritti umani fondamentali, a iniziare da quelli degli ultimi, i più vulnerabili".
Chiaramente la diplomazia della Chiesa si muove a fini religiosi e rappresenta "la via peculiare attraverso cui il Papa può raggiungere concretamente “le periferie” spirituali e materiali dell’umanità", come ha specificato Gallagher. Ma la sua azione sul piano diplomatico rafforza e affianca quelle delle grandi istituzioni multinazionali, come le Nazioni Unite o il Consiglio d’Europa, che da punti di partenza diversi e con differenti metodi puntano allo stesso obiettivo.
"L’idea di pace di cui la Santa Sede è portatrice non si ferma a quella che le Nazioni esprimono nel contemporaneo diritto internazionale. Operare per la pace non significa solo determinare un sistema di sicurezza internazionale e, magari, rispettarne gli obblighi. È richiesto altresì di prevenire le cause che possano scatenare un conflitto bellico, come pure di rimuovere quelle situazioni culturali, sociali, etniche e religiose che possano riaprire guerre sanguinose appena concluse". In questo senso, ha aggiunto l’arcivescovo, il diritto internazionale "deve continuare a dotarsi di istituti giuridici e di strumenti normativi in grado di gestire i conflitti conclusi o le situazioni in cui gli sforzi della diplomazia hanno imposto alle armi di tacere".
Uno dei passaggi più interessanti sembra proprio questo. Tutti ci preoccupiamo di come creare le condizioni per fermare i conflitti, meno attenzione sembra essere riservata alle misure da mettere in atto subito dopo che questo obiettivo è stato raggiunto, per garantire che una tregua, spesso fragile, si trasformi in una pace duratura. E su questo punto il segretario per i Rapporti con gli Stati è molto chiaro: "Il compito nel post-conflitto non si limita a riassettare i territori, a riconoscere nuove o mutate sovranità, o ancora a garantire con la forza armata i nuovi equilibri raggiunti. Esso deve piuttosto precisare la dimensione umana della pace, eliminando ogni possibile motivo che possa nuovamente compromettere la condizione di coloro che hanno vissuto gli orrori di una guerra e ora attendono e sperano, secondo giustizia, un diverso avvenire". Si scrive "dimensione umana della pace" si legge "dare priorità alla forza del diritto rispetto all’imposizione delle armi, garantire la giustizia ancor prima della legalità".
"Occorre prevenire le cause dei conflitti e rimuovere quelle situazioni culturali e sociali che possono riaprire guerre appena concluse"
Certo è un cammino lungo, difficile, lo sappiamo. Ma quello che ci dicono gli esperti è che non basta il lavoro delle Cancellerie internazionali, serve anche il nostro. Potrà sembrare retorico, ma se l’appello viene lanciato da un rappresentante di spicco di una delle diplomazie più longeve della storia, secondo alcuni “la prima”, è meglio prenderlo sul serio. Uno dei fattori che rallentano gli sforzi verso il dialogo è infatti proprio "l’indifferenza dilagante" e l’arcivescovo ci ricorda che tutti "volenti o nolenti, siamo raggiunti nella quotidianità da un’onda continua di notizie e di informazioni, che ci connettono virtualmente con il resto del mondo e che ci mostrano schiere di sofferenti, di senza tetto, di tante vittime delle guerre costrette a emigrare". Insomma non possiamo fingere di non sapere, e pure se non è colpa nostra è arrivato il momento di "rompere il guscio protettivo dei nostri egoismi, passando così dai teoremi sulla pace possibile, ad esperienze concrete di pace vissuta, anche se sofferta".
L’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, durante un intervento alle Nazioni Unite