Il 47° presidente degli Stati Uniti si chiamerà esattamente (e non è una coincidenza) come il 45°, vale a dire Donald John Trump.
Così ha deciso il 5 novembre, a chiara maggioranza, l’elettorato americano, smentendo le previsioni della vigilia che lasciavano intravedere una contesa molto serrata, sul modello di quella che, quattro anni fa, aveva sancito, a favore del campo opposto, il successo di Joe Biden. Confermati i tradizionali “fortini” geografici (l’Ovest e la “Ivy League” a favore dei democratici, il “Midwest” ai repubblicani), sono stati soprattutto i sette swinging states a fare la differenza, esprimendosi unanimemente a favore dello sfidante. In sintesi, secondo la efficace definizione di Lucio Caracciolo, è stata la cosiddetta «America sorvolata», quella lasciata a se stessa in quanto lontana dalle luci dei riflettori, dagli investimenti di capitale e dai flussi turistici, a fare nella circostanza la differenza.
In effetti il voto delle urne ha prodotto quella che si definisce una landslide victory, una affermazione a 360 gradi, tenuto conto che, oltre alla Casa Bianca, dal prossimo gennaio i repubblicani controlleranno anche Congresso e Senato, senza dimenticare il significativo successo del voto popolare (72 milioni di voti per Donald Trump contro i 67 milioni andati a Kamala Harris). Dato, quest’ultimo, non scontato, se si considera il fatto che nel 2016 la pur sconfitta Hillary Clinton aveva raccolto più suffragi del tycoon repubblicano. Si tratta di una situazione di potere destinata verosimilmente a durare per un solo biennio, dal momento che le elezioni di mid term, qualora rispettino la consolidata tradizione di premiare l’opposizione, si incaricheranno di alleggerire il controllo, in questo caso davvero eccessivo, esercitato dal Grand Old Party su tutte le principali istituzioni del Paese.
Fra i principali motivi che hanno contribuito a un risultato indubbiamente inatteso (e non a caso i sondaggisti ne sono usciti con le ossa rotte) possiamo qui, anche per ragioni di spazio, limitarci a citarne due. Da un lato, la indubbia (piacciano o non piacciano le sue idee) leadership esercitata dal “candidato Trump”, confermata anche dalla sua coraggiosa reazione all’attentato di cui è stato vittima nello scorso luglio, in contrapposizione a una rivale democratica scaturita dalla tardiva desistenza dello stagionato presidente Biden e non in quanto frutto di una scelta ragionata, condivisa dal partito. Dall’altro, la priorità conferita da Trump ad alcuni temi indubbiamente prossimi alla “pancia” dell’elettore americano, in particolare quello a basso reddito, quali l’elevata inflazione, l’eccesso di tassazione e la minaccia (reale o anche solo percepita) dell’immigrazione. Quanto precede in stridente contrasto al risalto dato dalla Harris a temi indubbiamente nobili, quali la tutela del sistema dei diritti civili e la difesa dell’ambiente, ma al tempo stesso considerati prerogativa di una minoranza della popolazione americana, in particolare il segmento ricco e istruito.
Volendo trovare un comune denominatore al trionfo repubblicano del 5 novembre, esso ci sembra identificabile nell’acronimo MAGA (Make America Great Again), il martellante slogan utilizzato da Trump nella campagna elettorale, allo scopo di restituire agli Stati Uniti quelle caratteristiche di benessere economico diffuso, credibilità, autorevolezza politica e coesione interna che, a suo modo di vedere, il quadriennio di Joe Biden aveva messo seriamente in pericolo.
Al momento attuale è, viceversa, meno agevole individuare quali saranno, al di là delle roboanti dichiarazioni acchiappa-voti, le effettive conseguenze del rientro di Trump alla Casa Bianca, un evento che ha comprensibilmente suscitato in vari Paesi e in diversi governi reazioni non univoche, chiaramente interpretabili dai variegati toni impiegati nei messaggi congratulatori. Ciò osservato, le inevitabili considerazioni di realpolitik imporranno a tutti i leaders politici mondiali di accantonare rapidamente eventuali diverse simpatie e di istituire i migliori canali di comunicazione con la nuova leadership di Washington. In attesa di conoscerne, con l’investitura presidenziale del 20 gennaio prossimo, gli altri principali interpreti, spicca sin d’ora l’incarico affidato al proprietario di X e uomo più ricco al mondo, Elon Musk, come ricompensa per la sua ostentata appartenenza al campo del vincitore. Per lui è stata appositamente creata la Segreteria per l’Efficienza governativa. Su altre annunciate indicazioni (fra tutte citiamo quella del negazionista Robert Kennedy Jr. alla Sanità) le reazioni registrate nelle capitali alleate (ma in alcuni casi negli stessi Stati Uniti) variano dalla perplessità allo sconcerto.
In campo internazionale e pur senza trascurare altri ambiti (ad esempio i futuri rapporti degli Stati Uniti con l’Unione Europea e la Nato) i maggiori interrogativi sembrano riguardare le scelte di fondo che il nuovo presidente vorrà effettuare in quelli che sono considerati i tre principali “punti caldi” del pianeta: Russia/Ucraina e Medioriente a causa dei due conflitti in corso, e la Cina, per la complessità di una relazione bilaterale che, al di là del sempre irrisolto nodo di Taiwan, è anche fortemente condizionata da vitali considerazioni di ordine economico (dazi in prima linea). Fra i tre temi ci uniamo ai molti analisti che ritengono particolarmente sensibile e attuale il primo, richiamando le affermazioni elettorali di Trump circa le sue capacità di contribuire a una rapidissima conclusione della guerra in atto fra Mosca e Kiev, ricordando altresì il contatto a distanza intrattenuto sul piano personale con il presidente Putin persino dopo l’aggressione, nel febbraio 2022, al Paese confinante.
Come ampiamente noto, il presidente Zelensky è stato sin qui in grado di opporsi alla indiscussa superiorità in uomini e mezzi della Federazione russa solo grazie ai massicci finanziamenti e ai sofisticati sistemi dì arma forniti in primo luogo proprio dagli Stati Uniti (e, in aggiunta, dall’Europa) durante ill presente mandato di Biden. Su questo sfondo rimane tutta da verificare l'intenzione del futuro presidente di continuare a consegnare a Zelensky pacchetti di aiuti e moderni mezzi di difesa, indubbiamente molto costosi per i contribuenti della Carolina del Nord o dell’Arizona, invece di concentrare il proprio impegno, così come enunciato nel primo discorso pubblico post voto (we will stop wars), sulla fine della conflittualità nel Donbass e nelle altre regioni coinvolte. Un obiettivo, quest’ultimo, che comporterebbe con ogni probabilità la dolorosissima rinuncia dell’Ucraina alla propria integrità territoriale, prospettando, con la sostanziale “mano libera” concessa alla Russia nell’area dell’Europa orientale, inquietanti dubbi anche sul piano della sicurezza dell’intero continente.
Ma, al momento, sembra più prudente non precorrere i tempi, ricordando - ed è un dato non trascurabile per confidare in un futuro meno inquietante rispetto alle aspettative - come già nel corso del precedente quadriennio (2017/2021) una volta in carica Trump avesse mostrato di saper distinguere con una certa lucidità la concretezza pragmatica dagli eccessi ideologici. Non avendo altra scelta, lo metteremo di conseguenza alla prova anche una seconda volta.
Auguro alle nostre lettrici e ai nostri lettori un sereno Natale e un gradevole inizio di 2025, anno del Centenario dal primo rintocco di Maria Dolens.
Il Reggente, Marco Marsilli



