La presentazione del programma del Centenario dal primo rintocco di Maria Dolens - al quale si è voluto dare priorità nell’editoriale di gennaio (numero 53 della «Voce») - non ci ha sin qui permesso di tracciare quel commento riepilogativo dei “fatti e misfatti” del 2024 che appare appropriato per un anno che è risultato indubbiamente denso di eventi. Chiedendo venia ai nostri lettori, lo svolgiamo, con qualche ritardo, in questa sede.

Nel cimentarsi con tale analisi è gioco forza riconoscere che un arco temporale in cui sono proseguiti i combattimenti (e i collegati massacri di civili) tanto sul fronte russo/ucraino che su quello israelo/palestinese, in cui gli orrori della guerra si sono estesi anche al Libano e in cui la lotta senza esclusione di colpi fra fazioni militari rivali ha trasformato il Sudan in una autentica emergenza umanitaria, non possa non essere etichettato come “estremamente problematico” dalla maggioranza delle nostre opinioni pubbliche. Aggiungiamo la circostanza che gli elettori americani hanno scelto come loro 47o Presidente il candidato più isolazionista e meno interessato alla cooperazione internazionale (le recentissime “boutades annessionistiche” nei confronti del canale di Panama, dell’isola danese della Groenlandia e, addirittura, del vicino e membro del G7 Canada lo stanno eloquentemente a testimoniare) e il quadro si arricchisce di un’ulteriore componente negativa.

Insomma, il contesto d’insieme autorizzerebbe prima facie a ritenere che, anche a causa dell’evidente stallo operativo in cui ormai da troppo tempo versano le Nazioni Unite, il quadro di accordi e convenzioni multilaterali concepito nel secondo dopo guerra e conservatosi in discreta salute sino alla fine del secolo scorso, sia entrato a questo punto in una crisi non più reversibile, venendo rimpiazzato un po’ ovunque, come norma generale di comportamento fra Stati, dal diritto del più forte (il cosiddetto might makes right).

Peraltro, una riflessione meno prevenuta e più bilanciata della odierna congiuntura mondiale sembra destinata a sfociare in conclusioni fortunatamente meno pessimistiche. Abbiamo già avuto modo di ricordare nel numero 47 della «Voce» come l’anno appena concluso sia stato contrassegnato, nei cinque continenti, da un numero record di elezioni, con il coinvolgimento di ben 76 Paesi e di due miliardi di aventi diritto al voto. In molti di essi - ivi compresi alcuni componenti del global South, vale a dire dell’area geografica maggiormente incline, secondo i politologi, a preferire i regimi autoritari e illiberali - gli appuntamenti con le urne sono risultati confortanti per le forze dell’opposizione.

Valgano per tutti due esempi relativi ad altrettanti protagonisti assoluti della scena internazionale, in quanto fondatori dei BRICS e influenti membri del G20. Si tratta di India e Sudafrica, dove i partiti da svariati anni al governo (nel caso di Pretoria senza soluzione di continuità dopo la fine dell’apartheid) sono stati costretti, per mantenersi al potere, a concludere intese di coalizione con le forze riformiste e ad accettare compromessi nei loro programmi.

A ben vedere, contribuisce a un bilancio dell’anno bisestile, ricorrendo a un’immagine calcistica “in sostanziale pareggio”, anche l’osservazione del presente contesto russo. Se il controllo di Putin sul suo Paese continua a oggi pieno e incontrastato, è l’“autoritarismo di stato” ad apparire in futuro esposto, a un’analisi oggettiva, a incrinature di rilevanza non trascurabile. I modesti successi militari riportati dall’esercito dello “zar” nel Donbass e nella regione di Kursk stanno infatti esigendo un prezzo altissimo, e non solo a causa di perdite sul terreno di portata ben superiore alle ammissioni del Cremlino. Su un piano generale, non mancano di farsi sentire gli effetti perversi della protratta sottrazione, a favore dello sforzo bellico, di consistenti percentuali di Prodotto interno lordo, indispensabili a uno sviluppo economico più equilibrato del Paese. Cali rilevanti delle produzioni industriale e agricola, alti tassi di inflazione e sempre maggiore dipendenza dal mercato cinese per l’allocazione delle proprie materie prime, in particolare gli idrocarburi, formano solo alcune delle inevitabili conseguenze collegate a una scelta di campo che, alla lunga, si rivelerà perdente per gli interessi della Federazione Russa.

A detti deficit strutturali va inoltre sommato l’ingente sperpero di risorse collegato al vano obiettivo di salvaguardare, a Damasco, la leadership del proprio “protetto” Bashar al-Assad. La rovinosa caduta di quest’ultimo, lo scorso dicembre, ha rappresentato per Putin una pesantissima sconfitta sia sul piano politico che su quello dell’immagine, condivisa con l’altro incondizionato sostenitore del feroce dittatore alauita, l’Iran, a sua volta ridimensionato dai durissimi colpi inferti dall’esercito israeliano ai movimenti di Hamas e Hezbollah, entrambi notoriamente vicini a Teheran.

In un quadro complessivo in rapida evoluzione persiste, è vero, l’incognita cinese. Sul piano dei rapporti internazionali Pechino non rifugge da atteggiamenti che si potrebbero definire come “provocatori” (sorvoli e esercitazioni navali) nei confronti di vicini d’area (primo fra tutti le Filippine), senza considerare le ripetute prese di posizione dei suoi vertici politici a favore dello scontato rientro dell’“Isola ribelle”, Taiwan, nell’alveo della One Nation. Senza sottovalutare la rilevanza della fitta rete di rapporti intessuta, anche grazie alla Belt and Road Initiative, con vari Paesi asiatici e africani, l’economia cinese, vero punto di forza del Paese nel corso degli ultimi decenni, sta attraversando una evidente fase di rallentamento. Secondo gli esperti dell’area, più che all’esistenza di cicli periodici, in quanto tali non direttamente attribuibili a specifiche linee di policy, il decremento di performances andrebbe soprattutto ricondotto alla volontà di Xi Jinping di porre il sistema economico della Repubblica Popolare sotto il controllo del Partito comunista, impedendo in tal modo al libero mercato di esprimere il suo maggior dinamismo.

In conclusione, nel permanere di grandi coni d’ombra sui due maggiori conflitti in atto (su quello Israelo/palestinese registriamo con grande soddisfazione il raggiungimento di una tregua condivisa, confidando nel rispetto della stessa delle parti in causa) e di situazioni a forte imprevedibilità (in primis la Siria), il 2024 sembrerebbe avere comunque confermato la resilienza dei sistemi democratici e la loro capacità di adattamento anche a scenari in rapido mutamento.

Applicando al Continente europeo il discorso elettorale svolto più sopra, va riconosciuto alla Gran Bretagna di avere superato senza eccessivi traumi la transizione fra Conservatori (rimasti in carica 14 anni) e Laburisti. Se la Francia è risultata maggiormente scossa dai propri ravvicinati esercizi di voto (che potrebbero conoscere nel 2025 una nuova “coda”, in un anno importante anche per la Germania, chiamata a febbraio anticipatamente alle urne), la sua popolazione ha nondimeno espresso con chiarezza la propria insoddisfazione per l’operato del presidente e del Governo in carica. La valutazione positiva va estesa alla Spagna, in grado di inanellare negli ultimi anni in campo economico, partendo per di più da posizioni non certo privilegiate, una serie di risultati in grado di proiettarla al primo posto nella speciale classifica dei Paesi industrializzati quanto a indici aggregati di crescita.

Proprio la capacità di separarsi da leader impopolari, di riporre nel cassetto progetti datati e di riconvertirsi senza esitare nella realizzazione delle priorità del momento, sembra costituire la chiave di volta per permettere alle democrazie in generale (e alle europee in particolare) di mantenere il passo rispetto all’emergere in diversi contesti geografici di nuovi attori internazionali, nonché potenziali concorrenti. È storicamente provato come i conflitti si manifestino soprattutto in situazioni di vuoti di potere, che richiedono di essere colmati. Un motivo in più, per le democrazie, di credere fermamente nei propri principi e valori e di dare prova di accresciute volontà di crescita, coesione e stabilità.

 

Il Reggente, Marco Marsilli

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