Accompagnate da voti sinceri per il nuovo anno, desideriamo sottoporre all’attenzione dei nostri lettori alcune considerazioni su un “gigante” dell’attuale panorama geo-politico, l’India, Paese che - come noto - ha raggiunto l’indipendenza solo nel 1947 a conclusione di un percorso, guidato dal Mahatma Gandhi, rimasto a oggi ineguagliato come esempio di risultato politico tanto radicale (tale dovendosi definire la separazione da un colonizzatore) quanto frutto di un processo pressoché per intero non violento.

A distanza di tre quarti di secolo da quello storico avvenimento, l’inserimento dell’India fra i “pesi massimi” della membership mondiale assume i tratti dell’atto dovuto, sulla base delle caratteristiche qui di seguito elencate: secondo posto sul piano della popolazione, che diviene il primo limitando la classifica ai sistemi democratici; settimo per estensione territoriale; quinto nel ranking economico complessivo; secondo fra i Paesi a più rapida crescita, con la straordinaria performance del 7 per cento rispetto all’anno precedente. Senza considerare la disponibilità, acquisita negli anni Novanta, a seguito di una protratta fase di sperimentazione, dell’arma nucleare.

Dopo l’ottenimento dell’indipendenza, l’India ha individuato, portandole avanti con costanza e determinazione, alcune fondamentali scelte strategiche: lo sviluppo dell’economia interna, tentando con ciò anche di correggere le maggiori debolezze intrinseche al proprio sistema, vale a dire la fortissima disparità sociale e una condizione femminile fra le più svantaggiate in senso assoluto; l’attiva difesa del proprio territorio nazionale dalle minacce, non solo potenziali, provenienti dagli Stati confinanti e, infine, l’affermazione di una propria, riconosciuta leadership nella regione, ottenuta anche mediante la messa a disposizione di propri contingenti a numerose missioni di Peace-keeping delle Nazioni Unite. Al perseguimento di tali obiettivi non è risultata di certo estranea la costante preoccupazione collegata alla presenza nell’area di potenze rivali particolarmente agguerrite, quali l’impero britannico sino al secondo conflitto mondiale e, da allora a oggi, la Repubblica popolare cinese (Rpc).

L’india è il secondo fra i Paesi a più rapida crescita e ha la disponibilità dell’arma nucleare

In esecuzione di tale impostazione, Delhi ha perseguito per lunghi decenni una politica di equidistanza dai blocchi contrapposti, distinguendosi in campo internazionale per il “visionario” operato dell’allora primo ministro Javaharial Nehru, uno dei fondatori nel 1961 del movimento dei Paesi «non allineati», eterogeneo raggruppamento di like minded che ha nel frattempo raggiunto la ragguardevole cifra di ben 120 membri.

Più recentemente, e pur senza abiurare al tradizionale status di neutralità, l’India sembra avere avviato una lenta ma costante conversione verso posizioni definibili come “filo-occidentali”, a cominciare dal dossier politicamente più sensibile del momento, quello relativo all’Ucraina.

Infatti, pur non avendo mai aderito presso le Nazioni Unite alle risoluzioni di condanna dell’aggressione russa (scegliendo la linea dell’astensione), Delhi non si é opposta presso altre sedi multilaterali alle prese di posizione anche molto critiche nei confronti del presidente Putin. Tale è stato il caso del vertice G-20 di Bali, preceduto - qualche settimana prima - dal summit di Samarcanda della Shangai cooperation organization, un organismo multilaterale regionale cui Delhi annette una marcata rilevanza strategica. In quell’occasione grandissimo risalto aveva incontrato anche sui media un’intervista del primo ministro Narendra Modi della quale riportiamo di seguito il passaggio centrale: «In presenza di profonde emergenze alimentari, climatiche e di fabbisogno energetico nonché di complesse transizioni industriali, non è certamente questo il momento della guerra. Più che dover affrontare le conseguenze delle devastazioni, occorre concentrarsi sulla conclusione di un patto di Pace».

Un linguaggio valutato dagli analisti politici come decisamente innovatore, considerata la dipendenza indiana dalla Federazione russa non solo per le forniture di equipaggiamenti e sistemi d’arma, ma anche per il vitale appoggio politico-militare, eredità dell’era sovietica, a più riprese concretamente concesso da Mosca nei momenti di più acuta crisi (sfociata con entrambi i vicini in conflitti armati) nei rapporti con la Rpc e con il Pakistan. In tale contesto, appare anche significativo che Delhi non abbia inteso seguire Mosca e Pechino nel voto contrario alla espulsione dell’Iran dalla apposita Commissione sullo status delle donne, adottata in ambito Onu a inizio dicembre.

Proseguendo nell’elencazione, l’India partecipa da alcuni anni al Quad, l’organismo quadrilaterale informale composto anche da Usa, Giappone e Australia e che si prefigge come scopo il mantenimento di un’area geografica indo-pacifica free, open and peaceful. Se appare comprensibile che Delhi abbia, per ragioni di opportunità e di buon vicinato soprattutto nei confronti di Pechino, rifiutato a più riprese di riconoscere alla nuova entità l’appellativo di “Nato asiatica”, la sua partecipazione alla innovativa struttura di sicurezza non ne appare, comunque, meno convinta.

Quella del premier Modi è una figura nella quale coesistono i tratti del nazionalista e quelli dello statista che apprezza i vantaggi della cooperazione internazionale

Non possiamo a questo punto esimerci da un seppur succinto commento sul premier Modi, leader del Partito popolare (Bharatiya Janata Party / Bjp), con una lunga esperienza come governatore dello Stato del Gujarat e, a livello nazionale, in carica dal 2014 con rielezione nel 2019. La sua è, indubbiamente, una figura carismatica, nella quale coesistono i tratti del nazionalista convinto (sintetizzata dalla parola-chiave hindutna) e dello statista in grado di apprezzare i vantaggi della cooperazione internazionale, avendo ben chiari gli interessi geo-strategici del subcontinente. Particolarmente rilevanti sono risultate le aperture da lui promosse verso gli Stati Uniti, sia sul piano politico («India e Usa sono alleati naturali») che su quello commerciale e degli investimenti diretti, ricambiate da Washington con il riconoscimento all’India dell’ambìto status di global player. Forte di una percentuale di consenso al momento ineguagliata fra le nazioni democratiche (77 per cento degli elettori) egli sembra dirigersi senza particolari timori al nuovo appuntamento del 2024 che gli porterebbe in dote il terzo mandato da primo ministro.

In conclusione, occorre dare atto alla classe dirigente e alla diplomazia di Delhi di avere avviato in questo scorcio di secolo, con prudenza e gradualità, quel “cambio di passo” necessario tanto per accompagnare con profitto i rapidi cambiamenti registratisi nel contesto geopolitico di riferimento, l’area dell’Indo-Pacifico, che per assicurare alla nazione indiana e al suo miliardo e mezzo di abitanti un ruolo da protagonista anche negli anni a venire.

La miscela di assertività e moderazione dovrà essere utilizzata anche per il consolidamento, nel senso di “pacifica convivenza”, delle relazioni con la Repubblica popolare cinese, un vicino che dall’alto dei suoi numeri (Pil sei volte superiore, spese per la difesa tre volte maggiori) ha tendenza a imporre anche nei confronti di Delhi l’atteggiamento di arrogante superiorità utilizzato nei confronti di tutti gli altri Paesi dell’area. In presenza di rivendicazioni territoriali (regione dell’Himalaya) sempre aperte, le ripercussioni di un conflitto nel quale risultassero coinvolte le due più popolose nazioni del pianeta, aprirebbero infatti un vulnus probabilmente incolmabile nell’attuale, e già precario, sistema di relazioni internazionali.

 

Il Reggente, Marco Marsilli

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