A distanza di oltre cinque anni dal ritrovamento del suo corpo martoriato dalle torture nei pressi dell’autostrada che collega Il Cairo con Alessandria, il sequestro, e la successiva uccisione, del giovane ricercatore Giulio Regeni, recatosi in Egitto per completare la sua tesi universitaria, rimangono a tutt’oggi irrisolti sul piano della individuazione dei colpevoli.

Anche sulla spinta della grande emozione, dell’unanime indignazione dell’opinione pubblica italiana e degli incessanti, coraggiosi appelli alla giustizia lanciati dai genitori, Paola e Claudio Regeni, in questo lungo arco di tempo le autorità italiane preposte al caso, tanto di polizia che giudiziarie, hanno investito ogni possibile sforzo per ottenere dalle controparti egiziane evidenze circa le precise responsabilità. In ogni circostanza i tentativi di ottenere collaborazione si sono scontrati con gli ostacoli più vari, quali ritardi, omissioni, rifiuti e vere e proprie attività di depistaggio, in particolare l’attribuzione dell’omicidio a quattro pregiudicati, uccisi in un conflitto a fuoco. Su questo sfondo di impenetrabile reticenza, l’iniziale sospetto di un diretto coinvolgimento dei locali servizi di sicurezza nell’assassinio di Giulio si è andato via via trasformando in un vero e proprio convincimento, al pari del movente dell’efferato delitto, da collegarsi senza possibile dubbio all’attività accademica di Giulio, ritenuta “sovversiva” dai poteri locali.

Né, nel quinquennio trascorso, sono valsi a indurre il governo cairota alla indispensabile collaborazione provvedimenti di natura politica, sull’esempio della sospensione delle relazioni fra Parlamenti disposta nel novembre 2018 dal presidente della Camera dei Deputati e il, di poco successivo, insediamento, al suo interno, di una commissione di inchiesta.

Analogamente, le esortazioni al ristabilimento della verità rivolte alle autorità nordafricane da varie istanze europee (ricordiamo per la sua rilevanza la risoluzione del Parlamento europeo del dicembre 2020) sono rimaste, all’atto pratico, lettera morta.

Malgrado tali oggettive difficoltà, la nostra magistratura inquirente, sulla base degli elementi di prova disponibili, è stata in grado, a fine 2020, di rinviare a giudizio quattro alti funzionari dei servizi di sicurezza egiziani con le pesanti accuse di sequestro e omicidio aggravato e di lesioni personali aggravate. La prima udienza del processo, che si celebrerà in assenza degli incriminati, resisi irreperibili, è di imminente svolgimento a Roma.

L’avere sin qui mantenuto la controversia su un piano puramente bilaterale ha implicato per l’Italia l’impossibilità di contrastare, se non con prese di posizione formali, l’atteggiamento di non collaborazione pervicacemente mantenuto da parte egiziana e ancora recentemente ribadito dal “caso Zaki”, lo studente naturalizzato italiano da un anno incarcerato al Cairo in assenza di capi di imputazione precisi e documentati.

Come messo in adeguato rilievo da un seminario recentemente svoltosi nella capitale a cura del Centro per gli Studi di Politica internazionale (Cespi), per superare situazioni di impasse quali la sopradescritta viene in soccorso uno strumento internazionale, la Convenzione contro la tortura e gli altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti, adottata nell’ambito delle Nazioni Unite nel 1984 e alla quale hanno aderito sia l’Italia che l’Egitto.

L’articolo 30 della Convenzione prevede infatti - in caso di fallimento di negoziati diretti (nella circostanza vanificati dall’atteggiamento egiziano) e del ricorso all’arbitrato - la sottoposizione della controversia alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja.

È evidente come in questo modo la piena collaborazione sul piano giudiziario dell’una come dell’altra parte diventi indispensabile, se si vuole orientare a proprio favore il verdetto dell’alto organismo giudicante.

Si tratta di un percorso, per svariati motivi, non agevole e, di conseguenza, pochissimo praticato (sin qui, un solo caso giunto a decisione e un secondo in corso), ma che da parte italiana, considerate le insormontabili difficoltà incontrate nella ricerca della verità sul “caso Regeni” dal 2016 a oggi, sembra comunque meritevole di essere preso in considerazione.

 

Il Reggente Marco Marsilli

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