A COLLOQUIO CON IL PROFESSOR GIUSEPPE NESI
IL DIRITTO ALL'AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI

 

Ci sono cose sulle quali siamo tutti d’accordo anche se non le conosciamo. Per esempio l’autodeterminazione dei popoli. Chi è contrario? Nessuno. Ma esattamente di cosa si tratta? «È un concetto relativamente recente, ma che ha acquisito rapidamente una portata internazionale. L’autodeterminazione è quel diritto che i popoli posseggono di potere agire per la realizzazione piena dei propri ideali, e rileva sia da un punto di vista esterno che interno», spiega il professore Giuseppe Nesi, ordinario alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Trento con competenze specifiche tra l’altro su giustizia penale internazionale, organizzazioni internazionali, protezione dei diritti umani e relazioni internazionali. Argomenti di casa alla Campana.

Esterno e interno?

Il diritto "esterno" si applica in situazioni di decolonizzazione, di occupazione militare e di apartheid. In queste circostanze un popolo, per affermare la propria identità, potrebbe anche fare ricorso ad azioni violente.

E l’"interno"?

Da un punto di vista "interno" l’autodeterminazione si realizza nella possibilità di attuare la forma di governo voluta dalla maggioranza della popolazione.

Quindi violenza e democrazia uniti in un solo diritto? Potrebbe sembrare una contraddizione.

I due aspetti dell’autodeterminazione potrebbero apparire molto distanti l’uno dall’altro, ma non si contrappongono tra loro. Infatti mentre ciascun popolo ha sempre diritto a scegliere la forma di governo che più gli aggrada, l’autodeterminazione esterna è riconosciuta dalla comunità internazionale solo se ricorrono le condizioni che abbiamo descritto, ovvero una situazione di dominazione coloniale, una occupazione militare, o un regime segregazionista.

Attuale quanto mai, basta leggere la cronaca delle ultime settimane che riporta a una annosa questione di autodeterminazione che forse non si può definire né interna né esterna senza scontentare una delle parti: il conflitto in Medio Oriente, apertosi dopo la seconda guerra mondiale.

La situazione in Medio Oriente è molto particolare, perché la popolazione palestinese ritiene il proprio territorio occupato da Israele, mentre Tel Aviv considera le stesse terre legittimamente sotto il suo governo. La questione si è complicata ulteriormente quando il governo israeliano, in risposta ad attacchi veri o presunti, ha gradualmente ampliato la sua base territoriale, imponendo all’intera popolazione e mantenendo con la forza quelli che ritiene essere i propri confini. La storia ci insegna che questa modalità di solito non funziona.

Una ferita aperta, un esempio emblematico di come non si debba agire a livello internazionale se si vuole realmente consentire a ogni popolo di decidere del proprio futuro in libertà e in pace.

Purtroppo sì, ma bisogna al tempo stesso sottolineare che le Nazioni Unite hanno sempre promosso la visione che prevede due Stati, uno palestinese e uno israeliano, confinanti e pacifici. Tutti i tentativi di soluzione di questa crisi che sono andati vicini a raggiungere l’obiettivo si sono ispirati a questa visione, ma in alcuni periodi si sono fatti grossi passi indietro. L’ultimo arretramento del processo di pace è stato quello causato dall’amministrazione statunitense guidata dal presidente Donald Trump, che ha addirittura adottato degli atteggiamenti provocatori, come la decisione di trasferire l’Ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, città da sempre contesa tra le parti per motivi storici e religiosi.

Portando questo ragionamento su scala globale, bisogna chiedersi se le Istituzioni multilaterali abbiano o meno gli strumenti per favorire la ricomposizione dei contrasti tra i popoli o tra gli Stati.

Basterebbe applicare la Carta della Nazioni Unite, dove già all’articolo 1 e poi al 55 si fa esplicito riferimento all’autodeterminazione di popoli. Si tratta del Dna delle Istituzioni multilaterali. Una consapevolezza che risale alla fine della prima guerra mondiale, con la posizione assunta dal presidente Usa Woodrow Wilson a proposito della necessità di garantire a ogni Paese la possibilità di scegliere la propria forma di governo. Le Istituzioni multilaterali hanno molte opportunità di intervenire, e in diversi casi hanno raggiunto risultati storici.

Facciamo allora anche qualche esempio di mediazioni finite bene. Cose che vanno meno sui giornali, perché si sa che la Pace fa meno notizia della guerra.

Si parla troppo poco del processo di decolonizzazione nella seconda parte del secolo scorso, un fenomeno enorme che ha riguardato soprattutto l’Africa, ma che ha toccato anche l’Asia. Ci sono state storie di grande successo, altrimenti non avremmo oggi 54 Stati africani e Paesi enormi e importanti come l’India liberati dal giogo coloniale. Solitamente si guarda ai fallimenti delle Istituzioni multilaterali, ma sarebbe giusto sottolineare anche che la loro azione, in particolare negli anni Sessanta, è stata di particolare efficacia.

Quanto pesa l’approccio culturale nell’esportazione della Pace e del dialogo?

È fondamentale, se per impostazione culturale intendiamo la capacità di ragionare, di capire le ragioni degli altri e di non prevaricare. Purtroppo va rilevato che negli ultimi anni a livello internazionale si è registrata una avanzata di formazioni politiche apertamente intolleranti. Non stanno prevalendo, tranne in alcune sfortunate eccezioni, ma sono tornate ad avere un certo seguito e in alcuni casi sono arrivate addirittura al governo. Viviamo in un momento storico nel quale è particolarmente importante vigilare, soprattutto da parte di chi ha gli strumenti culturali per comprendere quello che sta accadendo. Non dobbiamo sottovalutare le minacce al dialogo, al multilateralismo, alla tolleranza, al rispetto e soprattutto alla capacità di ascoltare.

A proposito della capacità di ascoltare, un grande scrittore siciliano, Gesualdo Bufalino, presentando il suo romanzo La luce e il lutto sintetizzò il ruolo sociale dell’arte descrivendo un’esperienza personale: «Ho imparato a non rubare ascoltando Mozart».

L’ascolto si educa, bisogna essere abituati. "Più concerti, meno guerre" potrebbe essere uno slogan efficace.

Giuseppe Nesi

Avviso ai bagnanti in Sud Africa nel 1989. La spiaggia di Durban è riservata «ai soli componenti del gruppo razziale bianco»

Gandhi, al centro, e la folla durante la "marcia del sale", manifestazione non-violenta che si svolse nel 1930 in India contro la tassa sul sale imposta dal governo britannico.

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