Del “super anno elettorale 2024” abbiamo avuto modo di occuparci con una certa regolarità anche in precedenti numeri della «Voce», con un primo inquadramento (vedasi il nr. 42) finalizzato a illustrare sia le straordinarie dimensioni dell’esercizio (metà dell’elettorato mondiale, vale a dire due miliardi di persone, chiamate alle urne praticamente senza soluzione di continuità in 70 Paesi diversi) sia la sua rilevanza per così dire “strategica”. Per una volta concordi, gli esperti e i commentatori politici lo valutano infatti alla stregua di un attendibilissimo “crash test” per verificare tenuta e resilienza dei sistemi democratici a fronte della preoccupante avanzata, percepibile in pressoché tutti i continenti, dei regimi a stampo spiccatamente autocratico e illiberale.
Nell’editoriale di marzo, con riferimento alla Turchia, abbiamo così commentato con favore la chiara affermazione riportata (in consultazioni, è vero, a livello amministrativo e non politico) dai candidati moderati e più aperti alla cooperazione con l’estero, nella grande maggioranza delle regioni e delle realtà urbane di quel Paese, vitale cerniera fra l’Europa e l’Asia.
Più recenti (in quanto risalenti a fine maggio / inizio giugno) sono invece i riscontri, ugualmente positivi, provenienti da due altri protagonisti dello scenario internazionale, India e Sudafrica, uniti dalla comune appartenenza a due “fora” multilaterali di influenza e prestigio crescenti, quali sono il G20 e i BRICS.
Nel primo caso il Primo Ministro Narendra Modi, indiscusso dominus del subcontinente dal 2014 a oggi, è stato sì riconfermato nell’incarico per un terzo mandato, ma la sua leadership risulterà d’ora in poi decisamente ridimensionata. I partiti che tradizionalmente lo appoggiano - primo dei quali il Bharatiya Janata Party (Bjp) - hanno ottenuto infatti un risultato molto inferiore alle aspettative, tradottosi nella perdita, rispetto al 2019, di circa 60 seggi. Nella valutazione degli addetti ai lavori, a Modi va riconosciuto l’indubbio merito di aver portato l’India, lungo l’arco dello scorso decennio, a livelli di crescita economica e di benessere sin qui ineguagliati nella sua storia. Dal lato degli insuccessi, continua irrisolta la “questione madre” della società indiana, quella delle “caste”, ulteriormente esasperata dal clima di accentuato induismo promosso dal Primo Ministro. Anche talune misure eccessivamente restrittive (ad esempio in materia di libertà di stampa) hanno finito per alienargli parte dei consensi. A questo punto, Modi dovrà scendere a patti con l’opposizione (personificata, accanto ad altre forze minori, dal partito del Congresso di Rahul Gandhi), ripristinando, gioco forza, quella dialettica politica che, in particolare nel corso del suo più recente mandato, era risultata pressoché inesistente.
Passando al secondo caso l’African National Congress (Anc) - lo storico partito di Nelson Mandela ininterrottamente al potere a Pretoria dalla fine dell’apartheid nel 1994 - è per la prima volta sceso, e di molto, al di sotto della fatidica soglia della maggioranza assoluta (40,2 per cento rispetto al 57,5 del 2019), trovandosi nell’inedita condizione di dover formare, per mantenersi in sella, un governo di coalizione. Lo stesso Ramaphosa (influente membro dell’Anc) ha correttamente valutato il responso delle urne come segnale della volontà dei cittadini sudafricani «di favorire una costruttiva collaborazione fra i principali partiti, a vantaggio del Paese e dei suoi abitanti». La recente notizia della sua rielezione e della formazione di un “governo di unità nazionale” fra l’Anc e la sua diretta rivale, la Democratic Alliance (Da), partito nel quale si riconosce la minoranza bianca, sembra di conseguenza la conclusione più logica per assicurare al Paese un periodo di prolungata stabilità, necessario anche per raddrizzare una situazione economica interna tutt’altro che brillante.
In estrema sintesi e pur riconoscendo la grande diversità, e non solo di collocazione geografica, esistente fra quelle due realtà statuali, gli scenari politici lasciano intendere, tanto in India che in Sudafrica, l’esigenza di un immediato e costruttivo “dialogo funzionale” fra le forze della maggioranza e dell’opposizione. Quanto precede sia per consolidare gli equilibri interni sia per assicurarsi anche in chiave futura una adeguata collocazione in campo internazionale. Un percorso di sviluppo virtuoso, insomma, particolarmente significativo in quanto avente come palcoscenico quel Global South spesso a rischio di autoritarismo, che non può non piacere a chi considera un aperto confronto politico, non importa se a volte ruvido e aspro, come indispensabile elemento fondante di ogni autentico sistema di democrazia.
Con una nota di maggiore prudenza va, viceversa, accolto l’esito del voto in Messico, a sua volta contestuale ai due precedenti. Anche perché chiaramente sostenuta dal presidente uscente, Lopez Obrador, l’elezione di Claudia Sheinbaum (prima donna a rivestire, a partire dal primo ottobre, il prestigioso incarico) non ha certo rappresentato una sorpresa. Meno attesa era, per contro, la dimensione del suo successo, con il principale partito di governo (denominato «Morena») vicino al 60 per cento dei consensi. La cautela sopra evocata è da porre in riferimento al possibile venir meno, con una maggioranza di seggi così eclatante in entrambi i rami del Parlamento, del preesistente sistema di check and balances. Per citare un esempio tutt’altro che irrealistico, in questo momento non esiste per l’opposizione la possibilità di bloccare gli emendamenti costituzionali in senso autoritario che la nuova presidente ha lasciato intendere di voler sottoporre al vaglio del legislativo a insediamento avvenuto.
Dato conto della “attenuazione” messicana (almeno sin qui di natura teorica), i non rari timori manifestatisi a inizio 2024 circa le negative ripercussioni derivanti dal “super anno elettorale” in termini di accresciuta instabilità e di concreto indebolimento dei sistemi democratici, sembrerebbero, per il momento, scongiurati.
Un discorso totalmente diverso riguarda, ovviamente, la possibilità di allentare, attraverso la tenuta di consultazioni, il ferreo controllo su territorio e popolazione esercitato da determinati regimi totalitari. Ci spieghiamo meglio. Anche in Corea del Nord, Russia, Bielorussia e in altre dittature si sono, nel corso del 2024, tenuti i “rituali” appuntamenti con le urne, peraltro privi, ancor prima della apertura delle stesse, di dubbi di sorta sull’esito finale del voto. In tutti quei Paesi gli autocrati già al potere sono stati riconfermati nelle loro cariche con maggioranze spesso plebiscitarie. Uno scenario non dissimile si verificherà, a breve, anche in Iran, al momento cioè della successione al defunto presidente, alla quale competono - con un’unica eccezione - solo candidati radicali e ultra - conservatori.
Pensare che dalle urne di detti Paesi possano emergere riscontri diversi, al netto di occasionali manifestazioni di protesta da parte di qualche coraggioso dissidente o “eroico” elettore, rileva - occorre riconoscerlo - della pura utopia.
Esaminati, seppur per grandi linee, gli esiti elettorali in contesti geografici indubbiamente centrali nel sistema geo-politico mondiale di oggi ma al tempo stesso geograficamente molto distanti dal nostro, la domanda che appare lecito porsi è come valutare, nel suo insieme, il voto scaturito dalle “europee” di giugno.
Il discorso è, ovviamente, complesso, non da ultimo per la disomogeneità delle indicazioni arrivate dai 27 Paesi - membri, molte delle quali - senza troppi giri di parole - di segno decisamente negativo. La stampa, tanto interna che internazionale, vi ha dedicato ampi commenti e variegate interpretazioni, ragion per cui ogni cittadino-elettore (categoria ben diversa, è bene precisarlo, da quella dagli abitanti dell’Unione Europea) può trarre in piena autonomia di pensiero le proprie conclusioni.
Da parte nostra, non da ultimo per impellenti ragioni di spazio, rimanderemo qualche personale considerazione sul tema ad un prossimo numero della «Voce».
Il Reggente, Marco Marsilli