«Arriveremo e colpiremo dovunque, con le nostre sofisticatissime capacità militari», è il minaccioso monito lanciato dal Primo Ministro di Tel Aviv, Benjamin Netanyahu, all’indirizzo della Guida Suprema dell’Iran Ali Khamenei. «Trasformeremo Israele in un inferno» è la non meno perentoria replica di quest’ultimo, in una escalation verbale che ha poco, o nulla, da invidiare alla militare.

La notte fra il 13 ed 14 giugno 2025 appare così destinata a incrementare l’ormai lungo elenco di date associate a eventi che, per le loro drammatiche conseguenze tanto nell’immediato che nel lungo periodo, minacciano in modo davvero preoccupante la sempre più fragile struttura su cui si basano, in questo tumultuoso inizio di millennio, i rapporti internazionali e la coesistenza fra le nazioni.

I missili iraniani che cadono, provocando numerose vittime, sulla capitale e altre città israeliane; i jet della campagna «Rising Lion» che nei bombardamenti decapitano vertici militari e di intelligence nonché i principali esperti nucleari persiani; i propositi degli ayatollah di colpire indiscriminatamente le basi militari occidentali situate nell’area; il concreto pericolo di contaminazioni associato alla distruzione delle centrali nucleari di Natanz e Isfahan (e al danneggiamento di quella, sotterranea, di Fordow). A ben vedere sono tutti tasselli di un gigantesco puzzle con regole di gioco “al contrario”, dove risulta vincitore non già chi riesce a completare per primo il composito mosaico ma colui che, prima degli altri, riesce a metterne fuori uso tutte le componenti.

Qualsiasi spiraglio per una soluzione negoziale del conflitto andrà colto e perseguito con coraggio e determinazione

Fra i danni diretti di tale situazione registriamo il rinvio sine die di quei negoziati sul nucleare che vedevano impegnati in Oman, ormai da svariate sessioni, tanto gli esperti statunitensi che quelli iraniani. Pur se circondati da modeste aspettative di successo, essi rappresentavano comunque una rara, e per ciò preziosa, opportunità di dialogo diretto. Uguale sorte è toccata alla Conferenza sul riconoscimento di un autonomo stato palestinese, che avrebbe dovuto aprirsi a breve a New York sotto co-presidenza francese e saudita e a sua volta rimandata a data da destinarsi. Né vale a migliorare il quadro d’insieme la ennesima conferma della paralisi operativa delle Nazioni Unite, ormai trasformate in una sorta di “sala stampa mondiale” in cui i rappresentanti dei Paesi in conflitto sono costantemente impegnati in accuse reciproche, davanti a colleghi diplomatici rassegnati a una imbarazzante impotenza.

Al momento in cui questo articolo va in stampa (20 giugno), la situazione appare difficilmente decifrabile, a parte la determinazione di Israele di azzerare i programmi nucleari iraniani, temendone il prossimo utilizzo a fini militari.

È dal foro del G7, esattamente dal recente Vertice canadese di Kananaskis, che si registra uno dei pochi elementi incoraggianti, sotto forma di una dichiarazione adottata alla unanimità con la quale i paesi più industrializzati sollecitano, riconoscendoli come componenti di uno stesso obiettivo, «la soluzione della crisi iraniana, una più ampia de-escalation e un cessate-il-fuoco nella striscia di Gaza».

Desideriamo qui spendere una parola sull’interesse, manifestato da un certo numero di Cancellerie, di provocare a Teheran un regime change, esautorando gli ayatollah e favorendo la composizione di un governo più disponibile alla collaborazione con il mondo occidentale. Per quanto detestabile sia la attuale nomenklatura di Teheran, le negative esperienze maturate negli scorsi anni in Libia, Afghanistan o Iraq dovrebbero condurre, da questo punto di vista, a ponderate riflessioni. Come si è avuto modo di sottolineare in un precedente commento (vedasi il numero 27 della «Voce»), la società civile iraniana registra già oggi nel proprio seno la presenza di movimenti d’opinione quali «Donna, Vita, Libertà» in grado di modificare gradualmente gli attuali equilibri sui quali si basa il regime dei Mollahs in carica.

Preoccupa il rinvio sine die dei negoziati sul nucleare in Oman tra esperti statunitensi e iraniani

Proprio da tali significativi settori della società iraniana, che si ispirano a condivisi valori di libertà e democrazia, potrebbe partire la ricostruzione di un nuovo sistema di governo, uno sviluppo possibile solo in assenza di una escalation militare.

E, comunque, qualsiasi spiraglio, seppure tenue, che si potrà prospettare nel prossimo futuro per una soluzione negoziale del conflitto andrà colto al volo e perseguito con coraggio e determinazione. È recentissima la notizia di un incontro, previsto a Ginevra, fra i ministri degli Esteri di Gran Bretagna, Francia e Germania e il loro omologo iraniano Abbas Araghchi. La prosecuzione, nelle attuali, difficilissime circostanze, di contatti ad alto livello governativo induce a far sperare che un margine di trattativa è tuttora esistente.

 

Il Reggente, Marco Marsilli

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