A OTTANT’ANNI DALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
Sembra sempre la prima volta. La prima volta di una “guerra giusta”, la prima volta che “non si può evitare”. E invece non è la prima volta, ma a 80 anni dalla fine della seconda guerra mondiale ce ne siamo dimenticati. Quell’evento ha cambiato per sempre le coordinate geopolitiche, morali e culturali del mondo, ha provocato oltre 60 milioni di morti, lo sterminio sistematico di popoli, ha spezzato culture e annientato città. È una sconfitta dell’umanità, prima ancora che della politica. Eppure, otto decenni dopo, la lezione impartita da tanta sofferenza appare ancora largamente inascoltata.
Le guerre continuano a insanguinare il pianeta, quasi sempre per gli stessi motivi. In Ucraina, in Medio Oriente, in Africa, in Asia il linguaggio della forza resta, troppo spesso, il solo a essere utilizzato per affrontare questioni geopolitiche. La sopraffazione armata come strumento di dominio persiste. Nonostante Hiroshima e Auschwitz, nonostante le macerie fisiche e morali del XX secolo, si ripetono vecchi schemi: disinformazione, retorica, costruzione e disumanizzazione del nemico. Capita però che a sostenere tesi guerrafondaie non siano solamente i rappresentanti dei Paesi che bombardano, ma anche persone come noi, convinte che non ci sia una via d’uscita se non la violenza.
Chi crede nella forza del dialogo è obbligato a pensare che la guerra non sia un destino, ma una scelta
Qualche volta sono uomini e donne reali, spesso è propaganda, che c’è sempre stata ma ora è più raffinata. Esperti comunicatori nascosti nell’ombra del web si spacciano per madri alle quali è stato ucciso un figlio, vedove di guerra, reduci o esperti di qualunque cosa, per veicolare tesi preconcette con il solo scopo di creare nella società opinioni a sostegno dello sforzo bellico. È un tipo di comunicazione nuovo che richiede un’attenzione diversa, ma che in sostanza fa riferimento a sentimenti atavici, quelli che ci spingono a individuare nel diverso le ragioni della nostra insoddisfazione.
La lotta tra popoli per il potere ha radici profonde, ben anteriori al Novecento. Già la mitologia classica ci restituisce la guerra come elemento strutturale della condizione umana. Achille e Ettore, nell’Iliade di Omero, sono eroi e vittime della stessa logica: l’onore, la vendetta, la gloria, tutto attraverso la violenza. «Cantami o Diva, del Pelide Achille, l’ira funesta, che infiniti addusse lutti agli Achei», così si apre il poema fondativo della civiltà occidentale. L’«ira funesta», non la Pace serena. Ma lo stesso capolavoro mostra anche la disperazione delle madri, il pianto degli amici, la disgregazione della comunità. Quello che vediamo oggi nei telegiornali, per chi li guarda ancora, o sui social, come facciamo quasi tutti. Forse Omero pensava che quell’esempio ci avrebbe aiutato a evitare di cadere nel tragico tranello della guerra giustificata da un fine nobile, ma non sembra avere avuto successo.
Ottant’anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale il miglior modo per onorare i morti non è ricordare gli atti eroici ma lavorare perché non servano più
Sembra quasi che la classicità voglia dirci che i conflitti sono inevitabili anche se portano tragedia e anche la storia antica, sembra confermare questa visione. L’impero romano, pur portatore di un’idea di ordine e diritto, si è fondato su secoli di espansione militare. La pax romana era il risultato della guerra romana. E non sono cose vecchie che non hanno importanza o influenza sul presente. Diversi secoli dopo, infatti, alla fine della grande guerra l’Europa ha ricalcato lo stesso schema: la Pace imposta dal vincitore, con il risultato che dopo pochi anni sono ricominciati i combattimenti.
Il secondo Novecento sembrava aver infranto questa logica con la nascita delle istituzioni multilaterali che hanno lo scopo dichiarato di scongiurare nuovi conflitti. Le Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa, l’Unione Europea sono state pensate per prevenire l’uso della forza, favorire il dialogo, tutelare i diritti. Ci sono riuscite in alcune zone del pianeta, in altre hanno fallito, a volte hanno ottenuto risultati parziali, ma a chi critica queste organizzazioni andrebbe ricordato che quando il mondo è caduto nell’abisso della seconda guerra mondiale, 80 fa, l’Onu non c’era, l’Ue non c’era, il Consiglio d’Europa non c’era.
Le Nazioni Unite hanno svolto un ruolo fondamentale nel mantenimento della Pace in molte aree del mondo. Certo sono spesso paralizzate da veti incrociati, forse è arrivato il momento di migliorarne il funzionamento: serve più Onu, non meno. Il Consiglio d’Europa ha promosso la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ancora oggi uno dei testi più avanzati in materia. L’Ue, pur tra molti limiti, ha garantito decenni di Pace in un continente storicamente martoriato dalla guerra. L’alternativa al multilateralismo è il nazionalismo, l’umanità ci ha già provato e non è andata bene.
Malgrado tutto, però, la guerra ritorna con una certa regolarità. Sempre per gli stessi “irrinunciabili e nobili” motivi. L’aggressione russa all’Ucraina ha riportato il conflitto nel cuore dell’Europa. Civili colpiti, bombardamenti indiscriminati. La propaganda bellica è sempre la stessa, “lo facciamo per difenderci”. La stessa che viene utilizzata in Medio Oriente da Israele che sta portando avanti contemporaneamente due guerre. Da una parte c’è l’attacco nella Striscia di Gaza, che ha come obiettivo dichiarato l’eliminazione dei terroristi di Hamas, ma che sta sterminando la popolazione civile palestinese.
Le istituzioni multilaterali seppure imperfette sono ancora gli strumenti più efficaci per contenere i conflitti e favorire soluzioni diplomatiche
Dall’altra parte ci sono i bombardamenti dell’Iran che, secondo Tel Aviv, sarebbe vicino a produrre l’arma nucleare. Il fatto che a Teheran sia al potere un manipolo di dittatori che schiaccia la popolazione civile non è in dubbio, la questione è se questa sia una strategia che funziona per garantire la sicurezza di Israele, e soprattutto se ci sia o meno un reale rischio.
Probabilmente lo sapremo troppo tardi, come è successo poco più di vent’anni fa quando l’Iraq di Saddam Hussein fu accusato di avere armi di distruzione di massa che non possedeva. Hussein è stato un dittatore sanguinario, ingiustificabile, ma ora sappiamo che quando nel 2003 l’allora segretario di Stato statunitense Colin Powell presentò una relazione all’Onu accusando direttamente Bagdad di possedere «armi chimiche in grado di uccidere migliaia di persone» le “prove” mostrate in mondovisione erano fialette riempite di una polvere bianca che non era antrace come sostenuto, e non era nemmeno nociva, ma poteva essere serenamente cosparsa sulla pelle dopo una doccia, era borotalco. Bagdad fu occupata, il regime cadde, Hussein fu catturato e condannato a morte, le armi non si trovarono, in Iraq regna il caos e non la Pace come ci si prefiggeva.
Sembra di tornare ogni volta al punto di partenza, come in un tragico gioco dell’oca che ci riporta periodicamente a rivivere le stesse tragedie. Unica differenza la tecnologia, che però trasforma il modo di fare guerra, non la sua essenza.
Theodor W. Adorno, testimone della Shoah e autore della Dialettica negativa, sosteneva che «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie». Un’affermazione che esprime la crisi dell’umano. Certo fu lo stesso filosofo tedesco a chiarire che non è la poesia in sé a essere barbarie, ma la cecità verso ciò che è accaduto.
Le Nazioni Unite hanno svolto un ruolo fondamentale nel mantenimento della Pace in molte aree del mondo
E forse allora è proprio la cultura che deve farsi carico dell’orrore, non cancellarlo. In questo senso, la poesia può ancora dire qualcosa. «Dei morti alle Termopili gloriosa è la sorte, bello il destino, altare è il sepolcro, al posto dei lamenti vi è il ricordo, il compianto è lode» scriveva Simonide di Ceo, vissuto nel V secolo prima di Cristo, commemorando i caduti. Per Orazio invece «è dolce e dignitoso morire per la patria». Dopo l’Olocausto, è ora di passare oltre. Ci ha provato nel XX secolo Paul Celan che con la sua Fuga di morte ha scolpito l’immagine dell’assurdità del male, denunciando l’orrore con un linguaggio spezzato, lacerato. La poesia non salverà, ma fa memoria. E in un tempo che tende a dimenticare non è poco.
Chi crede nella forza del dialogo è obbligato a pensare che la guerra non sia un destino, ma una scelta. La Pace è fragile, certo, ma si può costruire. Le istituzioni internazionali, per quanto imperfette, sono ancora gli strumenti più efficaci che abbiamo per contenere i conflitti e favorire soluzioni diplomatiche. Servono riforme, volontà politica, cultura, memoria.
Ottant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, il miglior modo per onorare i morti, le vittime, i sopravvissuti, non è ricordare gli atti eroici, ma lavorare perché non servano più. «Chi dimentica il passato è condannato a riviverlo», c’è scritto sul monumento all’ingresso del campo di concentramento di Dachau. È tradotto in trenta lingue, chi vuole capisce.
mf

