LE TERRE IRREDENTE A CENTO ANNI DALLA MARCIA SU ROMA
INTERVISTA ALLO STORICO MICHELE CANONICA

 

A volte è principalmente una questione di volume. Dire le stesse cose con un tono diverso può fare la differenza, perché esiste un nesso dialettico tra quantità e qualità. Lo ha spiegato  Michele Canonica, storico, editorialista e presidente del comitato di Roma della Società Dante Alighieri, dopo essere stato a lungo a capo del comitato di Parigi. L’occasione è stata la conferenza tenuta l’8 aprile  nella sede della Campana dei Caduti e incentrata sul tema «1922-2022. Le “terre irredente” a cento anni dalla marcia su Roma». 

Il tema è spinoso, come tutti gli argomenti di storia che riguardano un periodo vicino a noi, e certe volte, come questa, anche quello che sta succedendo in questi giorni. Tutto nasce con il romanticismo, quando «l’idea di attribuire a ogni popolo una psicologia collettiva porta alla volontà politica di unificare in una stessa nazione territori che fanno riferimento a una determinata cultura». Questo, sostiene Canonica che dopo l’incontro ha risposto a una serie di domande, «si è verificato in Italia, e non solo, a cavallo tra l’800 e il 900. L’irredentismo era stata infatti una delle bandiere agitate dalla classe politica liberale prima della prima guerra mondiale. Il conflitto ha rappresentato per statisti di estrazione risorgimentale uno strumento efficace per conquistare i territori che ancora non facevano parte nella Nazione».

Con il romanticismo l’idea di attribuire a ogni popolo una psicologia collettiva porta alla volontà di unificare in una stessa nazione luoghi che si richiamano agli stessi valori

Ma il fascismo come si inserisce in questa prospettiva?

Cavalcando il malcontento per la cosiddetta “vittoria mutilata”, cioè la mancata soddisfazione delle richieste territoriali di Roma. Molti italiani erano esasperati perché vedevano bistrattati gli ex combattenti e avrebbero voluto un maggiore rispetto dello sforzo compiuto per vincere la prima guerra mondiale dopo il disastro di Caporetto. C’è una congiunzione di vari fattori che soffiano sul fuoco della propaganda fascista, e molti credevano fermamente che Mussolini avrebbe potuto conquistare territori legati all’Italia sul piano culturale e ancora fuori dai confini. Così si creò un humus favorevole all’affermazione della dittatura.

Se questo è il punto di contatto tra l’irredentismo risorgimentale e il fascismo quali sono le differenze principali?

I fascisti inseriscono un grado di collera, di violenza e di retorica propagandistica che nei cauti personaggi della politica liberale italiana non c’era mai stata. Il livello del “volume” conduceva anche a una differenza qualitativa dell’azione. Ma tutto si basava sulla promessa fascista di mantenere la stabilità, anche perché la rivoluzione bolscevica aveva suscitato molti timori. Mussolini sembrava avere un programma pragmaticamente operativo, anche se poi negli anni della dittatura non ha ottenuto grandi risultati nell’ampliamento della presenza italiana in Europa e si è dedicato alle conquiste coloniali. Ma al momento della Marcia su Roma sembrava un uomo che aveva in mano la capacità di intervenire fattivamente, aveva un tono risoluto, e un modo di presentarsi che piaceva all’italiano medio. Anche per questo la decisione di Vittorio Emanuele III di non proclamare lo stato d’assedio di fronte alle provocazioni fasciste, aprendo di fatto la strada alla regime, venne accolta positivamente dalla popolazione.

L’irredentismo può essere considerato una prospettiva dalla quale guardare la storia italiana?

Forse questo è un po’ troppo, ma sicuramente è stato una componente importante, soprattutto ovviamente in Trentino e in Alto Adige, dove negli ultimi decenni le tensioni sono sensibilmente calate. In molti vedono proprio in queste zone un modello di collaborazione tra popolazioni di diversa lingua, cultura e sensibilità. Non c’è dubbio che tra il Trentino e l’Alto Adige ci siano delle differenze in termini di psicologia collettiva, ma sono differenze che hanno trovato una conciliazione relativamente armoniosa.

In che modo questa prospettiva ci può aiutare a comprendere il presente?

Bisogna sempre tenere in considerazione il sentire profondo di una popolazione.

Anche quando non lo condividiamo. Se guardiamo alla guerra in Ucraina, per esempio, ci troviamo di fronte a due collettività che hanno una percezione diversa di se stesse.

I fascisti perseguirono obiettivi condivisi inserendo un grado di violenza che nei personaggi della politica liberale non c’era mai stato

Gli ucraini rivendicano una differenza dalla quale discende una richiesta di autonomia, il regime russo avanza pretese sul Paese confinante ritenendo Kiev una pezzo della cosiddetta Grande Russia. In qualche modo si tratta di irredentismo: “Noi non vogliamo che gli occidentali con l’aiuto della Nato e dell’Ue vengano a occupare una terra che è nostra e quindi abbiamo fatto non una guerra, ma una operazione militare speciale”, sostengono a Mosca. Non si tratta di condividere, ma di comprendere cosa sta accadendo per trovare un modo di superare la crisi.

Una carta storico geografica dell’Italia

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