Che gli esiti delle cosiddette «elezioni amministrative» finiscano spesso per premiare i partiti che, su scala nazionale, sono all’opposizione, è caratteristica ampiamente conosciuta in pressoché tutti i Paesi e sistemi democratici.

Per il fatto di situarsi spesso negli intervalli delle tornate politiche, esse raccolgono le insoddisfazioni dei cittadini per promesse “acchiappa voti” non mantenute dall’Esecutivo in carica, quali il calo della disoccupazione, il controllo del debito pubblico o le migliorie in materia sanitaria o scolastica. Pur non arrivando a incidere sulle grandi questioni internazionali, i risultati delle amministrative (soprattutto se rappresentative di più realtà regionali) non vengono più, come un tempo, prese sotto gamba da addetti ai lavori e analisti politici, ma ritenute fondate “anticipazioni” di possibili cambiamenti di rotta negli umori dell’elettorato.

Perché questo possa verificarsi occorre, beninteso, la presenza di consultazioni fair and free.

Pochi dubbi possono infatti esistere sul fatto che in Bielorussia, Nicaragua o Corea del Nord (per citare pochi, ma pertinenti, esempi) ogni tipo di competizione (compresa quella, ove esistente, di capo caseggiato) si concluderà con l’inevitabile, roboante affermazione del rappresentante del regime, non potendo le autocrazie permettere che a un livello qualsiasi della scala gerarchica, fosse anche il più basso, la piramide monolitica di potere possa essere minimamente messa in discussione.

Tornando al discorso delle amministrative, il 31 marzo scorso gli elettori della Turchia sono stati chiamati alle urne per esprimere le loro preferenze in relazione a 81 province, vale a dire all’intero territorio nazionale. Gli osservatori inviati dal Consiglio d’Europa hanno qualificato «corrette» le procedure di voto, fatte salve sporadiche e non determinanti infrazioni emerse durante la campagna elettorale.

I partiti democratici dell’opposizione, che erano usciti sconfitti dalle presidenziali del maggio scorso, hanno conquistato poco meno della metà delle province (ben 35) e delle città metropolitane (14 su 30), prevalendo inoltre con vantaggi anche molto netti nei 4 maggiori centri urbani del Paese, Istanbul, Ankara, Smirne e Adana.

La principale componente di tale schieramento, il «Partito popolare repubblicano» (Chp) ha per la prima volta della sua storia scavalcato, in percentuale di voti ottenuti, la compagine filo-governativa del «Partito della Giustizia e dello Sviluppo» (Akp) con 37,7 per cento contro 35,5 dei suffragi.

Sul lato negativo della bilancia, va riconosciuto che la perdita di consensi dell’Akp è anche frutto dell’innegabile affermazione del «Nuovo Welfare» (Yrp) di Fatih Erbakan. Con tale sigla, decisamente fuorviante ma fedele traduzione dal turco in lingua inglese, si identifica il partito a maggior connotazione radical/islamista e nazionalista, divenuto terza forza assoluta nel Paese.

Con il conforto di tali dati, il sindaco di Istanbul, Ekrem Imanoglu, agevolmente rieletto nel suo mandato di Primo cittadino, si è autorevolmente riproposto per la successione al “sultano Erdogan” nelle presidenziali del 2028, confidando che, nel frattempo, la Giustizia turca lo scagioni definitivamente dalla ridicola accusa di offesa alle istituzioni che gli aveva, di fatto, impedito di presentarsi lo scorso anno, facilitando la riconferma dell’attuale presidente. Dal canto suo, quest’ultimo - pur mettendo in primo piano la difficile situazione economica del Paese e negando un affievolito consenso sulla sua persona - ha implicitamente riconosciuto la sconfitta, invitando i suoi sostenitori a fare «autocritica» e a trarre insegnamenti per il futuro.

In sintesi, anche in Turchia la recente tornata di amministrative ha riproposto il copione che avevamo tratteggiato a inizio articolo. A ben riflettere, si tratta di riscontro significativo in quanto proveniente da una Nazione che, nell’attuale contesto geo-politico, merita la - talora abusata - qualifica di “chiave” per quello che riguarda la preservazione degli assetti ed equilibri internazionali.

 

Passiamone insieme in rassegna le caratteristiche più importanti:

  • per posizione geografica di collocazione, indispensabile Stato-cerniera fra “Occidente” e mondo islamico, ruolo tanto più determinante alla luce del recente, diretto coinvolgimento dell’Iran negli eventi del post 7 ottobre;
  • dal 1952 a oggi convinto e affidabile membro della Nato, ma lontanissimo da una qualsiasi prospettiva di ingresso nell’Unione europea;
  • unico appartenente all’Alleanza Atlantica (se si trascurano le “impuntature” di Orban) a non avere aderito alle misure sanzionatorie contro la Russia, in nome di quella posizione di equilibrio ambiguo fra i due contendenti che consente ad Ankara margini di intermediazione fra Mosca e Kiev (nel caso dei cosiddetti «Accordi sul grano» coronati, va riconosciuto, da un oggettivo successo);
  • territorio di (precaria) residenza di milioni di profughi afghani, iracheni, siriani e di altre nazionalità, nei riguardi dei quali le autorità turche minacciano di tanto in tanto l’apertura delle barriere e il conseguente esodo di massa verso i Paesi europei (che pure accordano loro sostanziosi finanziamenti per facilitarne l’accoglienza e il trattenimento);
  • sulla questione medio-orientale, attestato su posizioni di inequivocabile condanna verso Israele per la gestione della situazione a Gaza, senza poter con questo negare l’evidenza di un grave problema di terrorismo interno, soprattutto ai propri confini meridionali (Hezbollah e Pkk). In tale categoria e nonostante le documentate efferatezze, Erdogan non appare peraltro includere Hamas, alla luce del suo recentissimo incontro con la leadership di quel movimento.

 

In una recente edizione della «Voce» (numero 42 del febbraio scorso) avevamo evidenziato la particolarità del 2024 come electoral year per antonomasia, con 2 miliardi di persone chiamate alle urne. Avevamo anche anticipato che dal loro esito complessivo sarebbe stato possibile valutare la resilienza dei sistemi democratici e liberali nonché la loro capacità a far fronte all’inquietante fenomeno dell’avanzata, in pressoché tutti i continenti, delle autocrazie e delle “democrature”.

Da questo punto di vista, il segnale proveniente dalla Turchia va certamente giudicato, pur con qualche inevitabile attenuazione, come indirizzato nella giusta direzione. Confidiamo che, a breve, dal complesso meccanismo elettorale indiano (un mese di durata) scaturiscano analoghi, positivi riscontri.

 

Il Reggente, Marco Marsilli

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