Nel corso della sua (vittoriosa) campagna elettorale, Donald Trump aveva chiaramente esplicitato a chi avesse interesse ad ascoltarlo gli obiettivi che, una volta reinsediatosi alla Casa Bianca, si sarebbe impegnato a conseguire con carattere di priorità.

Per limitarci ad alcuni fra i più importanti, si trattava sul fronte interno della lotta alla immigrazione clandestina, un fenomeno giunto a suo (ma non solo suo) modo di vedere a livelli di assoluta ingovernabilità e l’introduzione di dazi commerciali su un ampio numero di merci e prodotti stranieri, in modo da ridare fiato alla industria made in Usa e al contempo ridurre (o financo azzerare) il deficit della bilancia commerciale del Paese.

Passando alla politica estera, il tycoon aveva evidenziato con molta enfasi la volontà di porre rapidamente fine ai due maggiori conflitti in corso, malauguratamente scoppiati durante il mandato del suo predecessore, del tutto inadatto, a suo modo di vedere, a quei compiti di mediazione che, senza alcuna modestia, egli ritiene invece connaturati alla sua persona.

Onestà vuole che, a oltre un mese dall’insediamento, l’attivismo su questo fronte del nuovo presidente si sia già manifestato, ma con risultati che appaiono, nella migliore delle ipotesi, estremamente discutibili.

In estrema sintesi, infatti, sul fronte medio-orientale la proposta di dislocare gli abitanti di Gaza in alcuni Paesi dell’area limitrofa si è scontrata a un’opposizione pressoché generalizzata dei diretti interessati, vale a dire dei residenti nella Striscia e delle capitali arabe potenzialmente coinvolte, con l’unica, scontata eccezione di Israele.

Su quello russo-ucraino, la sua deliberata volontà di avviare, con un collegamento telefonico Casa Bianca- Cremlino anticipatore di seguiti più “personalizzati”, un canale di comunicazione diretto con Putin, scavalcando gli interlocutori ucraini, si è prevedibilmente urtata all’inequivocabile njet del presidente Zelensky. E, in aggiunta, anche degli alleati europei, poco inclini ad attribuire al “nuovo Zar” patenti di credibilità e affidabilità e, di conseguenza, estremamente diffidenti nei confronti di qualsiasi sua apertura al compromesso. Riuniti a Bruxelles proprio nel momento i cui i due big leader svolgevano la loro lunga conversazione, discettando di riconoscimento di confini e di futuri assetti geopolitici dell’area est-europea, i 27 europei ribadivano la loro ferma esigenza di una Pace «giusta, globale e duratura». Su questo sfondo, e pur sembrando prematuro parlare di “crepuscolo transatlantico”, ricomporre la sempre più evidente divaricazione delle posizioni europee e americane sui dossier, in senso lato, di sicurezza (in primis l’eventualità del futuro ingresso di Kiev nella Nato) appare impresa di non poco conto, come conferma la possibile esclusione dell’Unione Europea dalla sessione negoziale Usa-Russia di previsto svolgimento in Arabia Saudita.

Ciò premesso, ai citati “obiettivi dichiarati” sui quali ci siamo sin qui soffermati, già nei primi giorni di lavoro all’oval office il presidente Trump ne aveva affiancati altri, sconosciuti a tutti se non, forse, ai componenti del suo stretto entourage.

Genericamente inquadrabili nella categoria della “espansione territoriale”, gli stessi si traducono nella intenzione del 47° presidente di inglobare nella Federazione Usa, in tempi e modalità tutte da verificare, il Canada, il Canale di Panama e l’isola danese della Groenlandia.

Nel primo caso, il dimissionario Primo Ministro Trudeau, dopo avere in un primo momento parlato di semplice «provocazione», si è ricreduto, giungendo davanti a una platea di imprenditori locali a definire «niente affatto uno scherzo ma, anzi, un rischio serio» la stentorea presa di posizione di Trump. Il suo Paese è, oltretutto, particolarmente esposto al nuovo regime di sanzioni, sia per la contiguità territoriale con gli Stati Uniti sia per l’altissima percentuale (75 per cento) di esportazioni che viene assorbita dal mercato statunitense.

Passando al canale di Panama, il presidente Mulino (recentemente ricevuto da Mattarella al Quirinale nel contesto di una visita di Stato) è stato sì fermo nel ribadire la «totale sovranità» del suo Paese sul Canale, escludendo di conseguenza la concessione di tariffe di favore alle numerosissime navi con bandiera a stelle e strisce che lo attraversano. Al tempo stesso, non è risultata certo volontaria ma indotta dai consigli non disinteressati del nuovo Segretario di Stato Rubio, in missione nel Paese centro-americano, la decisione panamense di porre anticipatamente fine all’accordo «Belt and Road Initiative» a suo tempo sottoscritto con la Cina. Nella visione della Casa Bianca, tale intesa aveva il demerito di posizionare il Canale nella categoria delle «rotte logistiche critiche», pregiudizievoli cioè agli interessi di Washington, al pari di quelle esistenti nei mari dell’Asia meridionale.

Al terzo e ultimo caso, quello della Groenlandia, va dedicato qualche rigo in più, essendo a detta di taluni osservatori quello più suscettibile di tradursi, in un arco di tempo imprecisato, nella creazione del 51o Stato della Federazione. Quanto precede soprattutto se nell’aprile di quest’anno gli elettori groenlandesi, chiamati a esprimersi anche sul referendum per la indipendenza, dovessero votare per il distacco da Copenaghen. Secondo i sondaggisti esisterebbero ben pochi dubbi al riguardo, dal momento che 9 abitanti su 10 vi sarebbero favorevoli. A quel punto verrebbe meno una conditio sine qua non (l’appartenenza dell’Isola a un Paese amico e alleato in ambito Nato come la Danimarca renderebbe poco plausibile anche per uno spregiudicato Trump una modifica dello status quo) e le autorità del neo-costituito Stato sarebbero ovviamente libere di decidere del proprio destino. È d’altronde innegabile come l’Isola artica sia di grande interesse geo-strategico (vie di trasporto) ed economico (ricchezze del sottosuolo, in primis per la presenza di terre rare) non solo per gli Stati Uniti e la Nato ma anche per Russia e Cina, che hanno non per nulla incrementato negli scorsi anni la loro presenza militare (pattugliamento delle zone costiere) nell’area. In relazione a un’isola che appare comunque in forte trasformazione geo-politica, una condivisibile opinione appare pervenire da un apprezzato analista, Paul Hockenos, quando osserva che «la Groenlandia è un progetto ideale per gli alleati Nato da perseguire insieme, inglobando nelle consultazioni anche i locali. Il più grande ostacolo a tale processo potrebbe essere costituito dal bullismo pubblico di Trump».

In conclusione, dovendosi escludere (a meno di non ritenere definitivamente caducato il sistema di rapporti internazionali ereditato dal secondo conflitto mondiale) che gli Stati Uniti decidano di impadronirsi di uno o di tutti i tre territori con l’impiego della forza militare, lascia comunque assai perplessi la possibilità per un membro della Comunità delle nazioni di essere “acquisito” da un altro Stato dotato di maggiori mezzi. Ricorrendo a una procedura, a ben vedere, non troppo dissimile da quella con cui due squadre di calcio si contendono i servizi di un talentuoso attaccante o due multinazionali le prestazioni lavorative di un qualificato manager.

Il nostro auspicio, e lo si sarà capito, va nel senso di vedere qui applicate, in maniera superficiale e poco accorta, delle semplici esercitazioni retoriche, dunque confinate al mondo del wishful thinking.

 

Il Reggente, Marco Marsilli

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