Nessuna giustificazione, ma una domanda sì: «Si può vivere in un Eden incantato mentre fuori c’è la guerra?». Pare di no. Gli attentati di matrice islamica che negli ultimi giorni si sono registrati a Parigi e a Vienna sembrano confermare che se non si risolvono i conflitti “lontani”, prima o poi le conseguenze si fanno sentire anche in casa nostra, che non è il paradiso terrestre, ma un luogo dove rispetto al resto del mondo si sta molto comodi.
Senza farsi prendere dai sensi di colpa, perché la responsabilità non è mai di chi subisce gli attacchi, bisogna cominciare a trattare il terrorismo come una guerra diffusa e asimmetrica, e tenere conto che come tutti i conflitti anche questo ha origini economiche. Non c’è un Dio che chiede sangue infedele, ci sono estremisti pseudo-religiosi che trovano terreno fertile in situazioni di gravissimo disagio sociale.
La povertà non giustifica la violenza, la rende possibile, quasi probabile. Condannare gli attacchi è giusto oltre che necessario, ma non è sufficiente. Chiuderci nei nostri confini non funziona. L’unico modo che finora ha consentito a un continente come l’Europa di avere oltre settant’anni di pace è il dialogo, l’apertura, l’Unione. Il metodo però è complicato da attuare.
Per parlare bisogna essere almeno in due. Gridare contro gli assassini è facile. Difficile è il lavoro dei mediatori, dei diplomatici, chiamati a trovare il modo per rimuovere quelle disuguaglianze sociali che facilitano l’attecchire delle distorte interpretazioni dei testi sacri di cui si alimenta l’estremismo. Si può cominciare con gesti simbolici, come fa Maria Dolens, in attesa che si arrivi a iniziative pratiche. In ogni caso, dopo avere condannato atti ingiustificabili, bisogna capire perché accadono e provare a intervenire alle radici del problema.