Il brutale pestaggio al quale è stata sottoposta a Teheran a opera di agenti della “Polizia morale” la giovane curda Mahsa Animi, deceduta il 16 settembre scorso dopo tre giorni di agonia, perché “colpevole” di non aver portato correttamente il velo (hijab) imposto dagli anni ‘80 a tutta la popolazione femminile adulta, può avere rappresentato il punto di non ritorno nel, sin qui, implacabile impianto di controllo sociale imposto sulla popolazione iraniana dal regime teocratico degli ayatollah.

Certo, in un Paese difficilmente decifrabile per la presenza di contraddizioni ampie e laceranti, il condizionale risulta d’obbligo, non potendosi certo disconoscere, tutto d’un tratto, la solidità della presa esercitata sul Paese da oltre 40 anni di dittatura dell’integralismo religioso. Si ricorderà, ad esempio, come circa 10 anni fa oltre due milioni di iraniani fossero scesi nelle piazze per richiedere all’allora presidente Ahmadinejad libertà, secolarismo e democrazia, senza ottenere alcun risultato concreto. Ma l’ininterrotto fiorire in molte città del Paese, da metà settembre a oggi, di cortei organizzati da donne a capo scoperto, i lunghi e rumorosi caroselli di automobili, la più prudente, ma comunque vasta e vocale, solidarietà proveniente dalle finestre e dai balconi, l’allargamento della protesta a università, scuole e altri punti di ritrovo giovanile, lascerebbero intendere, ora forse più di allora, che la soglia di sopportazione è stata raggiunta. Anche la recente vicenda di Elmaz Reikabi, l’atleta che ha gareggiato senza hijab ai campionati asiatici di arrampicata sportiva a Seul, trionfalmente accolta al rientro in patria ma sottoposta, immediatamente dopo, a misure restrittive da parte delle autorità, è indicativa dell’esistenza di contrasti sempre più evidenti.

A ben vedere, l’Iran di oggi si presenta come una sorta di “aquila bifronte”. Da un lato, un Paese con una vita culturale di altissimo livello, ricca di rinomate università, di registi cinematografici affermati, di architetti di fama mondiale, all’interno di spazi urbani dove chiese e sinagoghe convivono con le moschee.

Dall’altro, una Repubblica islamica “feudale”, con caratteristiche molto vicine a quelle dell’Arabia Saudita, quanto a sottomissione a dogmi religiosi (sempre declinati come divieti) che si inseriscono prepotentemente in ogni ambito della sfera privata, rendendo inesistenti i margini di libertà personale.

In effetti è proprio questo “secondo Iran” a rappresentare il puntello popolare di un sistema ramificato e pervasivo che trova il suo vertice politico nel presidente Ebrahim Raisi, un ex religioso eletto Capo dello Stato nel 2021 a seguito di consultazioni chiaramente fraudolente e a bassissimo tasso di partecipazione. Negli anni ’90 egli era stato direttamente implicato nelle esecuzioni di massa degli oppositori politici, integrando i feroci “Comitati della morte”, istituiti dalla “Guida Suprema” del tempo, ayatollah Khomeyni. L’odierna struttura di vertice comprende poi, come massima autorità religiosa, l’altrettanto radicale ayatollah Ali Khamenei (a sua volta un ex presidente) il quale, contro ogni evidenza, non cessa di accusare Stati Uniti e Israele di essere i veri istigatori delle dimostrazioni popolari anti-regime. Infine, al mantenimento dell’ordine pubblico vegliano, esautorando in sostanza le forze armate regolari, i temuti “Guardiani della rivoluzione” (Pasdaran), inclini ad applicare anche nei confronti dei propri connazionali i brutali metodi a suo tempo appresi sul campo di battaglia contro i nemici iracheni e siriani.

Si tratta di un regime, oltretutto, che, aldilà delle sbandierate dichiarazioni di “probità rivoluzionaria”, è intriso di corruzione, come dimostra la presenza in moltissime case di Teheran e di altre città sia di bevande alcoliche che di antenne paraboliche per la ricezione di canali stranieri, nonostante la severa proibizione formalmente in vigore per le une e le altre.

Gli analisti politici occidentali calcolano in 10-15 anni il periodo necessario affinché anche la parte “feudale” della popolazione iraniana, attirata dai modelli di comportamento occidentali giornalmente diffusi dalle predette Tv, trovi il coraggio di “affrancarsi” dall’attuale sudditanza, mettendo a quel punto in serio pericolo la sopravvivenza del regime, già pesantemente contestato nei centri urbani. Va inoltre considerato il fatto che la metà degli abitanti (42 milioni su 84) è nata dopo la rivoluzione del 1979, elemento che gioca indubbiamente a sfavore della continuazione sine die delle politiche di repressione.

Del resto, modelli di vita non distanti da quelli europei erano presenti in Iran sino alla caduta dello Scià e al successivo avvento della teocrazia. Sarebbe un esercizio interessante, anche se puramente teorico, calcolare ora i livelli di sviluppo che il Paese avrebbe potuto conseguire, se solo Reza Pahlavi avesse affiancato le sue, decisamente avanzate, politiche di modernizzazione con un maggior rispetto delle tradizioni consolidate e un più stretto coinvolgimento della popolazione nell’attuazione delle riforme interne.

È indubbio, inoltre, che l’Iran sia da tempo entrato in una fase di recessione economica, evidenziata dalla constatazione che il reddito medio procapite, situato 10 anni fa attorno agli 8.000 dollari, è per quest’anno stimato a meno della metà (3.000 dollari) di quella somma.

Su detta situazione incide pesantemente il regime sanzionatorio applicato da Stati Uniti ed Europa a partire dal fatidico anno 1979, parzialmente attenuato nel 2015 al momento dell’accordo sul nucleare (Jcpoa) e successivamente, sulla base della decisione del presidente statunitense Trump di revocare l’intesa (2018), ritornato agli originari criteri di rigidità, fatte salve limitate eccezioni.

Rimanendo in campo internazionale ed evidenziato lo stato di isolamento in cui Teheran ormai da tempo versa, un breve commento si impone in merito ai rapporti con la Russia. A seguito del “blocco” alle importazioni deciso dall’Unione Europea nei confronti di gas e petrolio proveniente dalla Federazione, i due Paesi sono ormai prossimi a divenire concorrenti per quanto riguarda le forniture di idrocarburi alla Cina. È comunque scontato che Mosca tollererà senza protestare tale duopolio, almeno sino a quando dovrà ricorrere alla Repubblica islamica per l’acquisto dei sofisticati droni di produzione locale, gli Shahed 136. Come purtroppo evidenziato dai fatti e dalle immagini, il loro utilizzo - a quanto sembra facilitato dalla presenza su territorio russo di istruttori iraniani - è finalizzato alla sistematica distruzione della infrastruttura strategica ucraina, con poco o nessun riguardo per la sorti della popolazione civile. Anche questa precisa scelta di campo potrebbe erigere nuove e difficilmente valicabili barriere nei rapporti con l’Occidente.

Zhen, Zhian, Azadi (Donna, Vita e Libertà) è lo slogan scandito dalle coraggiose dimostranti nella capitale così come a Karay, Ardebil, Marivan e in moltissime altre località e rilanciato un po’ dovunque all’estero attraverso spontanei cortei di solidarietà (con taglio di capelli delle partecipanti) e meeting di protesta davanti alle sedi diplomatiche della Repubblica islamica. Il numero delle vittime delle ultime settimane ha già superato, secondo le affidabili valutazioni dell’organizzazione non governativa norvegese Human Watch, la quota di 200, senza parlare delle migliaia di carcerazioni nelle inumane prigioni locali (fra gli arrestati si conta anche la travel blogger italiana, Alessia Piperno.

Per concludere su una nota più positiva, rappresenta un segnale di effettiva speranza il fatto che influenti personalità politiche iraniane, quali gli ex presidenti Mohammad Kathami e Hassan Rouhani, vicini all’area “riformista”, non abbiano in alcun modo preso la parola per condannare le manifestazioni popolari. Il loro è un silenzio che pesa, anche perché interpretabile (e interpretato) come indiretta dissociazione rispetto ai metodi repressivi e ai gravi abusi commessi dal regime al potere.

Insomma, nonostante l’esistenza di difficoltà e di ostacoli non trascurabili, la partita per una graduale democratizzazione della Repubblica islamica iraniana si prospetta oggi come aperta. L’eventuale, auspicata estensione della protesta ai bazar, risultati determinanti alla fine degli anni ’70 per provocare la caduta dello Scià, sotto forma, ad esempio, di una protratta chiusura degli esercizi commerciali, potrebbe rivelarsi, a distanza di quasi mezzo secolo, decisiva anche nell’attuale, e ben diversa, congiuntura interna.

 

Il Reggente, Marco Marsilli

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