SEMINARIO SUGLI ACCORDI SIGLATI NEL 1992 IN MOZAMBICO

 

Il 4 ottobre scorso sul Colle di Miravalle, presso l’Auditorium intitolato all’ex reggente Alberto Robol, si è tenuto un seminario sul tema «32 anni dagli accordi di Pace di Roma 4/10/1992 - 4/10/2024», in occasione dell’anniversario della firma del trattato che pose fine al conflitto in Mozambico. Dopo un’introduzione del Reggente della Fondazione Campana dei Caduti, l’ambasciatore Marco Marsilli, ha preso la parola l’onorevole Mario Raffaelli, già sottosegretario agli Affari Esteri, che ha rappresentato il governo italiano nelle trattative. Pubblichiamo di seguito stralci dal suo intervento. 

 

Ci sono una serie di lezioni che ci provengono dall’esperienza del negoziato in Mozambico. La prima è che la Pace è possibile. A volte non sembra, ma può succedere.

Se nel 1983, ’84, ’85, ’86, i primi anni in cui andavo in Zambia come rappresentante del governo italiano, mi avessero detto che nella mia esperienza politica sarei stato partecipe della mediazione che portava alla fine della guerra interna, forse non ci avrei creduto, perché pensavo che i tempi sarebbero stati molto più lunghi. Se in quegli anni mi avessero detto che nella mia esperienza politica avrei visto il superamento dell’apartheid in Sudafrica, avrei detto che erano dei pazzi. E invece poi è successo perché non è impossibile. Non occorrono miracoli, ma la volontà dell’Uomo. È l’azione concreta che può costruire i contesti di Pace.

La seconda lezione è che la Pace non è mai frutto di predicazione. La buona predicazione è importante, serve, aiuta, mobilita le coscienze. Ma ciò che porta la Pace realmente è la costruzione di contesti politici, istituzionali, di garanzie interne internazionali tali che le parti che si sono sparate fino al giorno prima possano cominciare a convivere in maniera diversa.

D’altra parte è una lezione che noi europei dovremmo conoscere molto bene. L’Europa ha una storia di tragedie immani, di guerre religiose, civili e fra Stati. Due guerre mondiali con milioni di morti. Perché poi abbiamo avuto settant’anni di Pace? Perché siamo diventati geneticamente più buoni, più pacifisti o perché abbiamo costruito regole che hanno consentito di gestire i conflitti che c’erano? I conflitti ci sono ancora, perché i Paesi non hanno tutti le stesse idee o gli stessi interessi, ma quando si creano momenti di tensione esistono delle procedure per poterli gestire. Questo è il motivo per cui abbiamo avuto settant’anni di Pace. E questa Pace che diamo per scontata, potrebbe essere messa a rischio se entrasse in crisi questo meccanismo.

La terza lezione che viene dall’esperienza mozambicana è che la Pace non può mai essere frutto di un solo Paese, ma è sempre il risultato di un processo regionale che coinvolge più Stati. Non si può raggiungere un accordo stabile in un luogo se gli Stati limitrofi, anziché essere attori che favoriscono il processo di dialogo, creano tensioni. È quello che ho vissuto in Somalia dove ho lavorato per anni, ma senza risultati perché non ci sono queste condizioni. Perché lì la comunità regionale e quella internazionale non giocano la stessa partita.

L’ultima condizione necessaria per arrivare a un accordo è quella di avere dei mediatori che abbiano alcune caratteristiche: devono essere persone che conoscono il dossier, che hanno una conoscenza del territorio e di quello che succede, devono sentirsi coinvolti, ma restare imparziali.

Ricordo che una volta dissi alle parti che l’obiettivo del negoziato non è quello di diventare amici, ma di costruire delle condizioni che consentano di rimanere avversari capaci di confrontarsi con la parola e non con le armi. I due anni e quattro mesi di negoziato sono serviti a questo. (…)

I negoziati cominciarono nel giugno del 1990. Era il momento giusto perché erano cambiate una serie di condizioni. Prima di tutto era caduto il muro di Berlino. Il dialogo fra Gorbaciov e Reagan favoriva il disarmo missilistico e questo aveva portato alla fine delle guerre “per procura” in Africa, in particolare in Etiopia, ma anche in Angola, dove si avviò un processo di Pace contemporaneo al nostro, anche se con destino meno felice. Ecco quindi le condizioni regionali che cambiano, e quello che era difficile diventa possibile. Anche perché a ogni round negoziale seguiva un meeting con gli ambasciatori della Comunità europea che ci garantiva il sostegno internazionale.

Dopodiché ci son voluti ugualmente due anni e quattro mesi per risolvere i problemi. Il primo tentativo è naufragato sulla questione del riconoscimento reciproco. Allora facemmo rapidamente la legge sulle formazioni politiche, che definiva quali caratteristiche doveva avere un partito per essere accettato come tale. Questo fu abbastanza facile.

Poi si definì un articolo che io chiamavo “l’assegno postdatato”, nel senso che era un impegno per il futuro. E questo diceva che il governo della Repubblica Popolare del Mozambico si impegnava a non approvare leggi che contrastassero con quanto sarebbe stato concordato al tavolo dei negoziati. Era un grande passo in avanti, perché a quel punto le due parti si riconoscevano nel negoziato, ciò che veniva concordato al tavolo impegnava tutti. Tanto che alla fine, per renderlo effettivo, il Parlamento del Mozambico approvò l’accordo che diventò legge dello Stato. Poi facemmo la legge elettorale e poi la riforma delle forze armate e dei servizi segreti. Infine con il coinvolgimento delle Nazioni Unite passammo al disarmo e all’integrazione internazionale. Fu creata una Commissione che nei due anni tra la firma dell’accordo e le prime elezioni aveva il compito di monitorare la corretta implementazione degli accordi e aveva il potere di intervenire. Questa fu una grande concessione del governo del Mozambico, che rinunciava a una parte della sua sovranità per 24 mesi dando alla Commissione poteri prevalenti su quelli dell’esecutivo nella verifica dell’applicazione delle intese.

Uno dei motivi per i quali molti accordi di Pace non reggono o saltano è che il negoziatore dopo la firma chiude la partita e lascia le parti da sole a gestire il processo. Invece l’opportunità di avere due anni di “ginnastica democratica”, garantita da una sede d’appello dove risolvere i problemi, fu sfruttata a pieno. Le tensioni ci furono e senza quello strumento le parti avrebbero ricominciato a spararsi contro. C’era bisogno di una “camera di compensazione”.

Ma anche dopo, per i vent’anni successivi, i problemi ci sono stati. Io andavo in Mozambico spesso e mi ricordo che una volta, dopo un’elezione particolarmente contestata, c’erano stati degli scontri. Ebbi dei colloqui con le parti e tutti mi dissero che la scelta per la Pace era irreversibile. Che ogni crisi sarebbe stata affrontata con mezzi diplomatici.

Ma questo perché è successo? Perché nel Dna delle parti politiche il metodo del negoziato è stato interiorizzato, si è accettata l’idea in base alla quale ogni conflitto si può risolvere con la mediazione. Bisogna però sempre ricordare che la Pace non è una cosa data per sempre, va costantemente coltivata. Questo è l’insegnamento che viene dagli accordi del Mozambico, che possono rappresentare un esempio da seguire anche in altre situazioni di crisi.

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