Abbiamo già avuto modo di ricordare sulle colonne della «Voce» come i conflitti russo-ucraino e mediorientale, quest’ultimo inizialmente limitato a Israele e Palestina e in seguito estesosi ad altri Paesi dell’area, benché devastanti sul piano delle perdite di vite umane e delle distruzioni materiali nonché dirompenti in termini di ripercussioni geo-politiche a lungo termine, siano lungi, purtroppo, dal rappresentare i soli cantieri di guerra attualmente aperti nel mondo.

Le rilevazioni statistiche di una autorevole organizzazione no profit statunitense, la «Armed Conflict Location and Event Data Projects», arrivano a censire l’esistenza, nei cinque continenti, di ben 51 situazioni tali da aver provocato, nel corso del 2024, o il ricorso alle armi o situazioni comunque prossime alla contrapposizione militare.

Su alcuni versanti - è il caso di Afghanistan, Yemen, Myanmar (la ex Birmania) ed Etiopia - la conflittualità si trascina ormai da anni, senza alcuna prevedibile possibilità di conclusione, e appare costituire, all’osservazione sempre più indifferente di governi, opinioni pubbliche e media, un dato praticamente immodificabile dell’attuale contesto internazionale.

Insomma, citando il titolo di un libro della famosa scrittrice israeliana Hannah Arendt, ci troviamo di fronte a una pluralità di “banalità del male”, nelle quali l’esistenza di una guerra, con il nefasto contorno di ricorrenti massacri, indescrivibili violenze ed enormi privazioni, finisce per essere considerata fattore pressoché scontato, tale da vanificare qualsiasi tentativo in chiave pacificatrice.

Accanto ad essi, esistono anche casi di conflittualità più recente, meno consolidata. Su uno di essi, il Sudan, vorremmo svolgere di seguito alcune considerazioni, sembrandoci emblematico della estrema debolezza (alcuni parlerebbero di “inutilità”) del sistema di organizzazioni multinazionali creato, a partire dal 1945, proprio con il nobile intento di risolvere in via negoziale ogni futuro contenzioso fra Stati.

Pur se incline, dopo l’indipendenza acquisita nel 1956, a cambiamenti di potere cruenti nonché a fenomeni separatistici (confluiti qualche anno addietro nella creazione del Sud Sudan), nemmeno il Paese africano è risultato preparato alle drammatiche conseguenze della lotta per il controllo del territorio scoppiata, a seguito dell’ennesimo colpo di Stato, nel 2023 fra le forze armate regolari (Saf) e alcuni reparti speciali (Rsf), divisi sia dalle ambizioni politiche dei rispettivi leader sia da considerazioni di predominio interetnico.

Anche in questo teatro di guerra sono documentabili sia gli appoggi militari dall’esterno (Iran ed Egitto a favore della Saf, Emirati Arabi Uniti dal lato delle Rsf, sostegni ovviamente motivati, su entrambi i fronti, da consistenti interessi economici) sia gli sconfinamenti, dai territori attigui, di milizie notoriamente prive di scrupoli, prima fra tutte la “Wagner”, il temuto braccio armato della Federazione russa impiegato al fine di ampliare ulteriormente la già considerevole influenza di Mosca sul Continente africano, ricavandone anche preziosi appoggi in sede di voto alle Nazioni Unite.

Ma, fra tutte le possibili conseguenze, le più tragiche riguardano la sorte della popolazione civile sudanese, composta da circa 45 milioni di persone: a oggi sarebbero oltre 150.000 le vittime accertate, mentre sono stimate in oltre due milioni quelle che soccomberanno, rebus sic stantibus, alla peggior carestia annunciata sul continente africano dai tempi di quella che martoriò, negli anni ‘80, l’Etiopia.

Alla esplicita ammissione di «impotenza politica» espressa dal nuovo Inviato speciale degli Usa, Tom Perriello, si associa infatti - fattore invero sconcertante - l’estrema modestia del supporto umanitario. Se si dà credito (né esiste ragione per non farlo) alle stime del locale responsabile di «Save the Children», Arif Noor, per ogni milione investito in aiuti umanitari all’Ucraina, al Sudan viene allocata dal complesso di Governi, entità finanziarie internazionali e varie Ong la derisoria somma di poche migliaia di Euro.

Eppure, preoccupazioni per la sorte di donne, vecchi e bambini a parte, i motivi per evitare che il Sudan diventi l’ennesimo failed state, ad esempio attraverso una divisione de facto sul modello libico, sono molteplici e rilevanti. Ne citiamo qui solamente due.

La prima, riguarda la questione della sicurezza, il Sudan confinando per 800 chilometri con una sponda del Mar Rosso, arteria fondamentale con il canale di Suez del commercio mondiale, già minacciata da fenomeni terroristici (leggasi guerriglieri Houthi) e che è interesse comune, di conseguenza, preservare a tutti i costi da ulteriori ostacoli alla libera navigazione marittima.

La seconda è associata alla questione migratoria, dovendosi anche in questo caso evitare un esodo di massa dai porti mediterranei, considerato che già oggi i rifugiati dal Sudan costituiscono, accanto a siriani, libici e afghani, uno dei maggiori contingenti nazionali presenti nei campi di raccolta disseminati nei vari Stati europei.

A titolo di considerazione finale, occorre riconoscere che continuare a distogliere gli occhi da uno scenario di crisi così denso di ricadute sulla stabilità globale non è di certo nell’interesse dell’Occidente. In tempi di multilateralismo più condiviso ed efficace, New York avrebbe disposto senza troppe esitazioni, vista l’estrema gravità della situazione, una missione di peace-keeping nella regione, con l’obiettivo di giungere alla de-escalation delle violenze e all’individuazione di una possibile soluzione negoziata. Una volta riconosciuta l’attuale paralisi decisionale delle Nazioni Unite, il grande interrogativo di questo primo scorcio di terzo millennio riguarda la eventualità di perseguire con altri mezzi un analogo risultato, individuandone sia la base giuridica che le disponibilità umane e finanziarie. Una risposta per entrambi gli aspetti, va realisticamente constatato, non risulta però dietro l’angolo.

 

Il Reggente, Marco Marsilli

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