PRESIDENZIALI IN BRASILE

Il 2 ottobre, a una settimana esatta di distanza dal voto in Italia, gli elettori brasiliani (gli aventi diritto sono stimati attorno ai 150 milioni) si sono recati alle urne per eleggere il loro 39° Presidente. A prima vista, l’accostamento fra le due date potrebbe sembrare forzato, o persino irrilevante, trattandosi, oltretutto, di due sistemi diversi, parlamentare l’italiano, presidenziale il brasiliano, finalizzato a designare per via diretta il nuovo Capo dello Stato.

Eppure, un legame esiste ed è rappresentato dal fatto che il Brasile, storicamente una delle principali destinazioni dell’emigrazione dalla Penisola, ha regolarmente contribuito, dal 2006 a oggi, alla composizione del nostro Legislativo. È di quell’anno, infatti, la prima applicazione della Legge (la 459/2001) che ha riconosciuto agli italiani e ai loro discendenti residenti all’estero, in presenza di determinate condizioni, il diritto di voto alle elezioni politiche nonché agli esercizi referendari. A partire dalla XV Legislatura, quella per l’appunto inaugurata nel 2006, i banchi di Montecitorio e di Palazzo Madama hanno così, di volta in volta, accolto almeno un parlamentare eletto e residente nel maggior stato del Sud America.

Ma, esaurita la digressione, ritorniamo al tema principale, l’elezione del nuovo occupante del Planalto, l’equivalente del nostro Quirinale, alla quale competono, oltre a candidati minori privi di possibilità di successo, due contendenti “principali”, diversissimi fra loro non solo per posizioni politiche ma anche per storia personale.

Lo “sfidante” è Luiz Inácio Lula da Silva, 76 anni, già Presidente per due mandati (dal 2003 al 2011), successivamente incappato in una vicenda giudiziaria per malversazione e corruzione dai contorni mai pienamente chiariti, che per 18 mesi (dall’aprile 2018 al novembre 2019) lo ha portato dietro alle sbarre, venendo in seguito scagionato dalle accuse e “riabilitato”.

Prima di entrare in politica in incarichi di crescente responsabilità sino a diventare il leader della maggior forza di sinistra del Paese, il Partito dei Lavoratori (Pt), Lula è stato metalmeccanico e sindacalista.

Convinto sostenitore della necessità di ampie aperture in campo economico e sociale a favore delle classi meno abbienti della popolazione brasiliana, in particolare operai, contadini e comunità indigene, in molti casi situate ben al di sotto della soglia di materiale sopravvivenza, negli anni di attività al vertice a Brasilia ha dato vita a vasti programmi di sostegno alle stesse (in particolare la cosiddetta Bolsa Família, che mette a gratuita disposizione delle famiglie meno abbienti tutti i generi alimentari di base). Tali provvedimenti gli avevano permesso, soprattutto durante il primo mandato, di raggiungere indici di popolarità straordinariamente elevati, tali da farne addirittura ipotizzare una candidatura a Segretario Generale delle Nazioni Unite.

Il “detentore” è Jair Bolsonaro, ex militare (capitano dell’esercito), capofila della destra populista e nostalgica, eletto nel 2018 (in assenza di Lula, in quel momento detenuto) anche come reazione a un governo “targato Pt” che, negli ultimi anni, aveva portato il Paese a un accentuato declino in campo economico nonché a una fortissima polarizzazione sociale (peraltro mantenutasi tale anche dopo il cambio di governo).

Denominato dai suoi oppositori “il Trump dei Tropici”, sia per la tendenza ad atteggiamenti sopra le righe sia - circostanza decisamente più grave - per l’ostinazione a negare spesso e volentieri l’evidenza dei fatti (per tutti basterà ricordare il protratto disconoscimento e, in seguito, la fallimentare gestione della pandemia da Covid-19, con un tragico bilancio di 700.000 vittime), egli può contare, per la riconferma nell’incarico, su tre importanti constituencies. Esse sono la militare, da cui egli d’altronde proviene, le Chiese evangeliche (sempre più ricche e influenti nel panorama locale, un quarto dei parlamentari facendovi dichiaratamente parte) e, infine, la composita lobby agropecuaria (nella stessa confluiscono anche cercatori d’oro, commercianti di legname e speculatori agricoli) favorevole al proseguimento delle politiche di disboscamento in Amazzonia. Queste ultime, in spregio alle vibranti proteste anche dell’opinione pubblica internazionale, si sono intensificate sotto il suo mandato, e a un ritmo sostenuto. A titolo di esempio, gli esperti calcolano che in un solo mese del 2022 la deforestazione abbia interessato un’area equivalente a quella della città di San Paolo, dove vivono circa 15 milioni di persone.

Ritornando a Lula, nel tentativo di “intercettare” almeno una parte del voto moderato e di attirare consensi anche da quegli ambienti, industriali e finanziari, a lui di certo non favorevoli, l’ex sindacalista sembra avere attenuato, nel corso della sua campagna, le posizioni più oltranziste, affiancando al Pt anche alcune sigle “centriste” e scegliendo come proprio vice l’ex governatore di San Paolo, Geraldo Alckmin, che di tali movimenti è fra gli esponenti più autorevoli.

In campo internazionale, come reazione al sostanziale immobilismo di Bolsonaro più concentrato sulle tematiche interne, Lula si è reso interprete di due distinte proposte. La prima va nel senso di valorizzare la presenza del Brasile fra i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), riguadagnando quel ruolo trainante andatosi negli ultimi anni decisamente offuscando. La seconda, concerne l’istituzione di una “moneta sudamericana”, condivisa fra gli appartenenti del Continente, da impiegare prioritariamente per le transazioni finanziarie e commerciali, mettendo in tal modo fine alla “dittatura” della valuta statunitense che pure, al momento, gode di una posizione in apparenza inattaccabile.

Le previsioni elettorali sono concordi nell’assegnare allo “sfidante” un vantaggio ancora sostanzioso, a fronte - peraltro - di un innegabile fenomeno di recupero di consensi dell’attuale Presidente, cui hanno evidentemente giovato sia indicatori economici favorevoli (fra di essi, il positivo andamento dei raccolti agricoli e il sostanziale controllo sui livelli di disoccupazione e inflazione) sia l’adozione di provvedimenti “spot” (quali la detassazione della benzina) da tempo reclamati dalla popolazione.

Su questo sfondo, gli analisti ritengono poco probabile che la soglia del 50 per cento dei consensi venga raggiunta al primo turno da uno dei due candidati e danno praticamente per scontata la necessità del ballottaggio, già fissato per il 30 ottobre. Per entrambi gli appuntamenti, il Brasile potrà servirsi di un sistema elettronico di voto, tanto rapido quanto affidabile, che consente in tempi brevissimi di conoscere il risultato delle urne. Il fatto che il Presidente Bolsonaro - anche in questo caso ricorrendo a un espediente già utilizzato da Trump - abbia in recenti dichiarazioni messo in dubbio l’imparzialità del sistema, può essere indicativo di un suo timore di non recuperare più l’attuale distacco.

Al momento in cui il presente numero de «La Voce di Maria Dolens» sarà disponibile ai nostri lettori, sapremo se, come tutto sembra indicare, il nome del nuovo Presidente del Brasile sarà noto solo a fine ottobre. Le dimensioni dell’affermazione di Lula il 2 ottobre (un dato, questo, che non sembra controverso) costituiranno certamente un importante fattore oggettivo sui rapporti di forza fra i due contendenti, ma anche a causa dell’inevitabile riposizionamento di candidati e di partiti eliminati al primo turno, non potranno, di per sé, fornire anticipazioni certe sull’esito finale dell’esercizio elettorale e, di conseguenza, sul nome del 39° Presidente brasiliano.

 

Il Reggente, Marco Marsilli

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