Dopo lo scoppio delle ostilità in Ucraina, i più avvisati analisti politici hanno praticamente da subito sottolineato l’esistenza, nella comunità internazionale, di un “osservatore” particolarmente attento e interessato all’andamento del conflitto provocato dall’invasione russa, nonché delle sue conseguenze a livello globale. Trattasi della Repubblica Popolare di Cina (Rpc), al momento la seconda economia planetaria ma in attesa, fra non molti anni, di effettuare il previsto sorpasso sugli Stati Uniti. Un Paese contraddistintosi, nel corso dell’ultimo ventennio, per livelli di sviluppo economico ineguagliati anche in un’area, come l’asiatica, risaputamente molto dinamica, peraltro accompagnati dal mantenimento di un ferreo controllo politico, intollerante a qualsiasi forma di dissidenza, sulla popolazione residente.

Il motivo del puntuale monitoraggio di Pechino sugli eventi militari nel Donbass e dintorni è senza ambiguità identificabile nella situazione di Taiwan, lo stato insulare di cui la Rpc rivendica, pressoché da sempre, la “riconquista”, nonostante esso non abbia mai fatto parte, a ben vedere, del suo territorio nazionale. Come noto, Formosa (appellativo della dominazione portoghese) venne occupata nel 1949 dalle forze nazionaliste del Generale Chang Kai-shek, in fuga dal continente perché sconfitte dall’esercito comunista nella guerra civile susseguente al secondo conflitto mondiale.

Se si prescinde dall’ovviamente ben diverso contesto storico/geografico di riferimento, le pretese di Pechino non si discostano di molto, sul piano “ideologico”, da quelle addotte il 24 febbraio scorso dal presidente Putin. Trattasi, in altri termini, del disegno di estendere la sovranità nazionale verso ambiti geografici considerati di proprio riservato dominio e dei quali, in base a considerazioni che poco o nulla hanno a che vedere con la legalità internazionale, non si accetta o l’indipendenza (per l’Ucraina e le altre repubbliche ex sovietiche, in relazione alla Federazione Russa) o anche una più limitata condizione di autonomia.

Quest’ultimo è, propriamente, il caso di Taiwan, con cui solo pochissimi Stati al mondo intrattengono normali relazioni diplomatiche (in tale ristretto novero il più significativo di essi è certamente la Santa Sede), essendo pressoché generalizzato in campo internazionale il riconoscimento di una “sola Cina”, identificata nella Repubblica Popolare.

È stato a partire dagli anni ‘70, dalla storica visita a Pechino del Presidente Ronald Reagan, che la stragrande maggioranza di Paesi, compresi Stati Uniti ed Europa, hanno iniziato infatti a considerare la Rpc (in quel periodo ammessa all’Onu, in parallelo con la espulsione di Taipei) come l’interlocutore cinese “istituzionale” per tutte le questioni, dalle politiche alle economiche, dalle ambientali a quelle della sicurezza, che rappresentano le priorità dell’agenda multilaterale.

Al tempo spesso, in considerazione dei loro molteplici e consolidati interessi nell’area del cosiddetto “Indo Pacifico” , la preservazione dell’integrità territoriale di Taiwan da possibili minacce provenienti dal continente costituisce per gli Stati Uniti un must inderogabile, pena il ridimensionamento, probabilmente irreversibile, della propria sfera di influenza globalmente intesa.

Le 19 ore trascorse a Taiwan, a cavallo fra il 2 e 3 agosto, dalla “speaker” Nancy Pelosi, nell’ambito di un periplo asiatico che l’ha portata anche a Singapore, Kuala Lumpur, Seul e Tokyo, e i suoi incontri con la presidente Tsai Ing-wen e altre autorità dell’isola sono valse a mettere in luce con molta chiarezza le numerose e profonde contraddizioni, già emerse o sin qui latenti, in un rapporto cino/americano destinato, lo si voglia o meno, a condizionare per decenni a venire i destini dell’umanità.

Le reazioni cinesi, la cui forma più plateale è consistita in esercitazioni aereo-navali senza precedenti per durata, numero di mezzi coinvolti, estensione delle aree di svolgimento e chiarissime caratteristiche di “provocazione” (anche nei confronti di Paesi terzi quali il Giappone), si sono sostanziate anche in sanzioni sulle forniture di generi alimentari e di materie prime (in primis le componenti per i semiconduttori, di cui Taiwan è primo produttore mondiale), da cui l’isola è fortemente dipendente. 

Sul piano politico, il monito rivolto da Xi Jinping all’omologo Biden in un recente colloquio telefonico «di non scherzare con il fuoco, altrimenti si rischia di finire bruciati», non può non essere più esplicito per veicolare la fortissima irritazione della leadership cinese di fronte a quello che equivale a un vero e proprio “affronto”.
Per la verità la Casa Bianca, il Dipartimento di Stato e il Pentagono avevano fatto quanto nelle loro possibilità per dissuadere la risolutissima speaker dal compiere la tappa taiwanese, intuendone in nuce le disastrose conseguenze sul piano dei rapporti bilaterali e, più in generale, di “area geografica”. D’altro lato, in democrazia (un sistema che si situa esattamente all’opposto della rigida ortodossia verticistica esistente in Rpc, dominata dal partito unico) il potere legislativo è, ovviamente, libero di adottare le proprie decisioni, soprattutto quando esse sono ampiamente condivise (bipartisan).

Trattandosi, probabilmente, del suo “canto del cigno” (la ottantaduenne Pelosi difficilmente sarà ricondotta al vertice del Congresso dalle elezioni di mid term del prossimo novembre, nelle quali sembra profilarsi una affermazione dei conservatori), la speaker in esercizio non si è lasciata sfuggire l’occasione di confermare con l’autorevolezza della sua carica l’impegno Usa a favore della difesa di Taiwan, rinnovando l’analogo impegno di cui si era reso interprete, 40 anni prima, un suo predecessore repubblicano, Newt Gingrich, ultima personalità Usa di spicco a intrattenersi sull’isola.

A ben vedere, nel dossier taiwanese la posta in gioco sia per Xi Jinping che per Biden è molto alta, sul piano della rispettiva credibilità, tanto interna che internazionale. II primo è atteso, nel mese di ottobre, dal Congresso nazionale del Partito comunista (Pcc) che ne sancirà con ogni verosimiglianza la rielezione alla Segreteria nonché alla Presidenza del Paese per un ulteriore quinquennio (il terzo). Dal momento che nessuno dei precedenti presidenti, compresi Deng Xiaoping o Hu Jintao, è rimasto così a lungo nella carica di vertice, è evidente la volontà di Xi di dimostrarsi “degno” di un riconoscimento indubbiamente prestigioso. A tal fine e in tale ottica, quale dimostrazione migliore del portare finalmente Taiwan sotto l’effettivo controllo di Pechino, mettendo fine, dopo la brutale repressione poliziesca di Hong Kong, anche all’“anomalia democratica” di un altro, e ben più importante, territorio cinese (non a caso identificato nel gergo burocratico come la “provincia ribelle”)? Tanto più che, nelle valutazioni degli esperti militari, entro il 2027, limite del nuovo mandato di Xi, le forze armate cinesi sarebbero operativamente in grado di intraprendere con successo una eventuale “operazione annessione”.

Da parte sua, il presidente americano si troverà, un mese più, tardi, ad affrontare elezioni di “metà mandato” che, come sopra ricordato, si preannunciano problematiche per il suo partito, non da ultimo a causa di una quota personale di popolarità imbarazzantemente vicina ai minimi storici.

Il coinvolgimento degli Stati Uniti nello scacchiere asiatico, lungi dal dipendere solo da ragioni di immagine collegate al ruolo di global player, deriva soprattutto da interessi economici definibili come strategici, in quanto tali irrinunciabili. Prova ne è che mentre il titolare della Casa Bianca non ha mai, nemmeno quando apertamente provocato da Putin, adombrato la possibilità di un diretto coinvolgimento militare Usa per difendere il Donbass, egli lo ha fatto, seppure senza venir meno alla tradizionale linea di “ambiguità strategica”, in riferimento a un eventuale aggressione cinese a Taiwan. L’isola, una democrazia compiuta sul piano delle istituzioni nonché il ventiduesimo Paese mondiale in termini Pil, si trova al centro di vitali rotte marittime, dal cui controllo dipendono - ad esempio - gli approvvigionamenti energetici di storici alleati Usa, quali Corea del Sud, Giappone e Australia. Di conseguenza, se preservarne l’integrità è obiettivo obbligato, la rotta di collisione con Pechino appare praticamente inevitabile.

In conclusione, ritornando al tema di cui ci siamo occupati in recenti editoriali, il conflitto russo/ucraino, la sollecita individuazione di una soluzione negoziale che, senza pretese di perfezione, possa ritenersi “equilibrata” e, in quanto tale, accettabile sia a Mosca che a Kiev, sembra costituire il miglior antidoto anche all’apertura di un temibile fronte di instabilità in Asia.

Una violazione definitiva, e sostanzialmente non sanzionata, della legalità internazionale contemplata dalla Carta delle Nazioni Unite che, in ipotesi, finisse per essere tollerata nei confronti della Federazione Russa, costituirebbe infatti per la Rpc una tentazione probabilmente irresistibile, anche se di attuazione non immediata, sul piano dell’effetto imitazione.

L’auspicio largamente condiviso ma, ovviamente, tutto da verificare quanto a realizzabilità, è che le Nazioni Unite, sulla scia di una credibilità internazionale almeno in parte recuperata grazie al recente “accordo sul grano”, siano in grado di favorire il raggiungimento anche di un cessate il fuoco, seguito da una duratura soluzione politica per le aree contese.

Il Reggente, Marco Marsilli

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