Quando in sede di presentazione delle “presidenziali” americane di novembre (vedi nr. 43 della «Voce») avevamo introdotto un leggero “caveat” in merito alla matematica certezza che la contesa per la Casa Bianca avrebbe avuto come protagonisti due ottuagenari, quell’esiguo margine di dubbio era, in sincerità, riferito al campo repubblicano. Non ritenevamo infatti del tutto implausibile che, nell’ambito dei numerosi processi pendenti a carico di Donald Trump, una eventuale sentenza di condanna potesse, legalmente, precludergli la possibilità di proseguire la campagna elettorale, obbligandolo alla desistenza.
Che la previsione del ritiro di uno dei contendenti abbia viceversa finito per avverarsi nello schieramento più insospettato, quello democratico, costituisce la “prova provata” di come, in politica, nulla possa essere dato per scontato, compresi quei contesti - e gli Stati Uniti vi rientrano di diritto - in cui le procedure sono programmate con largo anticipo e, salvo situazioni davvero eccezionali, in base a cadenze chiaramente prestabilite. Una situazione di totale imprevedibilità si è manifestata proprio lungo il percorso per la designazione del quarantasettesimo Presidente degli Stati Uniti.
In effetti, nonostante un suo accentuato declino fisico e intellettuale, non era francamente immaginabile che l’odierno occupante della Casa Bianca uscisse “travolto” in modo irrecuperabile dal primo faccia a faccia televisivo con il suo sfidante. Così come era ugualmente difficile prevedere che, dopo la rinuncia di Biden a concorrere al nuovo mandato, il Partito democratico facesse immediatamente quadrato attorno alla candidatura dell’attuale Vice Presidente, scartando l’ipotesi (cui inizialmente due suoi “pesi massimi” quali l’ex Presidente Barack Obama e l’ex speaker Nancy Pelosi sembrano propendere) della open convention. All’elenco delle sorprese seguite al “cambio di cavaliere”, possono essere inoltre ascritti, a credito dei Democratici, sia la consistenza dei flussi di finanziamento che il positivo riscontro dei sondaggi, gli uni e gli altri in netta ripresa dopo l’accantonamento di Biden.
La sorpresa aumenta di fronte a un curriculum vitae di Kamala Harris tutt’altro che brillante e, anzi, costellato da non pochi insuccessi personali, cominciando dal suo contestato disimpegno come Procuratore Generale della California, per passare al totale fallimento della partecipazione alle “primarie” del 2020 e, per concludere, alla sua incapacità di acquisire visibilità e autorevolezza in un ruolo che, ingrato quanto si vuole, è quello della seconda carica della maggiore potenza mondiale.
Con un salto temporale, aggiorniamo a questo punto gli orologi alla metà di agosto, quando il presente articolo viene scritto e consegnato per la pubblicazione. A ottanta giorni dal voto e dando per scontate, da qui al 5 novembre, le consuete oscillazioni nelle rilevazioni (oggi leggermente favorevoli alla Harris), i sondaggi mostrano l’esistenza fra i due rivali di un sostanziale equilibrio, ciò che - contrariando molte aspettative - evidenzia come Trump non sia riuscito a capitalizzare, in termini di consensi rispetto alla fedelissima comunità MAGA (Make America Great Again), quei dividendi che l’ammirevole prova di coraggio collegata al criminale attentato del 13 luglio avrebbe potuto arrecargli in dote.
Nelle analisi dei commentatori, nei prossimi mesi un fattore importante sarà rappresentato, in particolare negli Stati considerati “in bilico” (quali Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Carolina del Nord, Arizona e Georgia), dalla capacità dei due contendenti di attrarre verso il proprio campo i numerosi elettori ancora indecisi.
Da questo punto di vista Kamala Harris, che nella sua persona e nella sua storia familiare incorpora al contempo le influenti minoranze afroamericana e asiatica, ha compiuto una scelta precisa, scegliendo per il “ticket” presidenziale l’attuale governatore del Minnesota, Tim Walz, attestato su posizioni vicine alla sinistra del partito e preferito al collega della Pennsylvania, Josh Shapiro, più “centrista” e - in quanto tale - più in grado (secondo alcuni democratici) di strappare consensi ai settori repubblicani “moderati”. La attuale Vice Presidente avrà comunque dalla sua parte anche l’età, fattore non trascurabile considerando il fatto che l’eccessiva seniority dei due candidati originariamente in lizza aveva rappresentato un elemento, largamente condiviso, di perplessità.
Sempre in materia di “numeri due”, a maggiori dubbi sembra esporsi la scelta di Trump (effettuata, va sottolineato, in un momento in cui come suo avversario figurava ancora Biden) dal momento che il Senatore dell’Ohio J.D. Vance appare essere poco più di un suo “doppione” (per di più radicale) e non il portatore di istanze politico-sociali convergenti e complementari, in altre parole in grado di allargare la base di consenso del “grand old Party”. Un suo tratto in comune con il democratico Walz è dato dall’appartenenza al Midwest, alla regione cioè che aveva fatto la differenza nelle due precedenti consultazioni, orientandosi - con un movimento pendolare - nel 2016 per Trump e quattro anni più tardi per Biden.
Fatte queste considerazioni occorre riconoscere che, come da tradizione, sull’esito delle elezioni statunitensi finiranno per incidere in maniera molto significativa le posizioni assunte dai leader dei due schieramenti sui temi di politica interna, con la materia immigratoria a risultare potenzialmente determinante, in quanto la maggiormente divisiva.
Su uno sfondo per così dire “classico”, non va trascurato un fattore, definibile come “anomalo”, vale a dire la volontà del presidente Biden di concludere la sua lunga e onorata carriera pubblica con titoli di coda più degni rispetto all’imbarazzante apparizione televisiva di fine giugno. Quale migliore modo per riscattare la sua offuscata immagine del dedicare gli ultimi mesi di mandato, avvalendosi della collaborazione dell’inesauribile segretario di Stato Antony Blinken e dell’efficiente consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan, alla ricerca di soluzioni per le due maggiori crisi internazionali in atto? A titolo di esempio, l’organizzazione sul versante europeo di una “Conferenza per la Pace” cui fossero contemporaneamente presenti i rappresentanti di Kiev e di Mosca. Per il Medio Oriente l’ottenimento di un prolungato cessate il fuoco a Gaza, in grado di scongiurare sia la temuta escalation di azioni militari e di conseguenti ritorsioni e rappresaglie sia l’ampliamento del conflitto ad altri Stati della regione (l’Iran in primis).
Ormai libero dai condizionamenti della rielezione, il quadriennio del presidente in carica uscirebbe in tal modo arricchito da un risultato, anche se solo parziale o limitato a uno dei due scenari di conflitto, di innegabile peso politico. Qualora ottenuto entro il 4 novembre esso finirebbe - e non è conseguenza di poco conto - per tradursi anche in un sicuro rafforzamento delle prospettive elettorali di Kamala Harris.
Il Reggente, Marco Marsilli



