ANGELICA BONFANTI

La lotta alle diseguaglianze è parte integrante del processo di realizzazione dello sviluppo sostenibile. Quest’ultima nozione è stata concepita in seno alle Nazioni Unite a partire dal Rapporto Bruntland del 1987. Da sviluppo che risponde ai bisogni del presente senza compromettere le esigenze delle generazioni future, il concetto di sviluppo sostenibile si è progressivamente evoluto sino all’attuale articolazione. La formulazione più recente è stata elaborata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che nel 2015 ha approvato l’Agenda 2030 e i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. Questi ultimi, di fatto, articolano lo sviluppo sostenibile su quattro pilastri – economico, ambientale, sociale e della legalità – e individuano le priorità mondiali odierne.

Più di 21 milioni di individui sono subiscono moderne forme di schiavitù e tratta

L’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile n. 10, in particolare, è indirizzato alla lotta alle diseguaglianze, da intendersi nella duplice accezione di diseguaglianze all’interno degli e fra gli Stati. È utile ricordare che nel 2017 circa 689 milioni di individui vivevano ancora in povertà estrema, con un reddito inferiore a 1,9 dollari al giorno, situazione ulteriormente acuita dalla successiva pandemia e dalla recente crisi geo-politica. Anche il dato sulle diseguaglianze interne rimane in costante e preoccupante aumento.

Secondo l’Agenda 2030 la lotta alle diseguaglianze deve essere condotta mediante l’attivazione di processi di cooperazione internazionale e, al contempo, l’attuazione di politiche nazionali che garantiscano la promozione dell’inclusione sociale, economica e politica di tutti, indipendentemente da età, sesso, disabilità, razza, etnia, religione o altri fattori, e la garanzia di pari opportunità, anche mediante l’abrogazione delle leggi e l’eliminazione delle pratiche discriminatorie.

Lotta alle diseguaglianze di genere, al lavoro forzato e al cambiamento climatico sono tre delle sfide oggi cruciali per la realizzazione dell’Obiettivo n. 10.

Il divieto di lavoro forzato è una delle regole più violate

Si tratta, tuttavia, di traguardi purtroppo molto ambiziosi. Quanto alla diseguaglianza di genere, è paradigmatico che dei 168 Stati che hanno ratificato la Convezione delle Nazioni Unite sulla lotta alle discriminazioni contro le donne, molti – anche se ciò è contrario all’oggetto e allo scopo della convenzione stessa – abbiano precisato, mediante l’apposizione di riserve, di voler rispettare gli obblighi convenzionali solo nella misura in cui sono compatibili con il loro diritto nazionale – spesso altamente discriminatorio.

A questo si aggiungono inevitabilmente gli allarmanti dati statistici su parità e violenza di genere. In merito alla seconda sfida, non si può che rilevare che il divieto di lavoro forzato, uno dei principi inderogabili del diritto internazionale, è evidentemente anche una delle regole più violate: come stima l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, più di 21 milioni di individui sono infatti ancora costretti a moderne forme di schiavitù e tratta.

E, infine, le diseguaglianze sono aggravate dal cambiamento climatico, che ha un impatto più drammatico nelle regioni più povere del mondo. Secondo quanto dichiarato dallo «Special Rapporteur» delle Nazioni Unite su diritti umani e povertà estrema, i Paesi più ricchi, responsabili della grande maggioranza delle emissioni di gas a effetto serra, hanno infatti le capacità di adattamento per far fronte al surriscaldamento globale, mentre i più poveri, che hanno contribuito in misura molto minore – la metà più povera della popolazione mondiale ha prodotto solo il 10% delle emissioni globali – sostengono circa l’80% dei costi. La Banca Mondiale stima che senza azioni immediate il cambiamento climatico porterà alla riduzione in povertà di ulteriori 120 milioni di persone entro il 2030.

L’Obiettivo n. 10 senza politiche adeguate può diventare definitivamente irraggiungibile.

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