La Voce di Maria Dolens

Per offrire uno spazio di riflessione in questo periodo del tutto straordinario che stiamo vivendo, la Fondazione Opera Campana dei Caduti di Rovereto ha chiesto a Marcello Filotei, giornalista de "L'Osservatore Romano", di scrivere ogni giorno un breve articolo che prendendo spunto dall'attualità richiami l'importanza dei valori ai quali si ispira l'attività della Fondazione.
La rubrica si intitola "La voce di Maria Dolens" e viene pubblicata sul quotidiano "L'Adige" nelle pagine di Rovereto.

 

Otto, sedici, ventiquattro. Sembrava facile, ma ci sono voluti anni e morti. Otto ore si lavora, otto si dorme e per le restanti otto ognuno decide per se. In fondo si tratta di rivendicare la dignità dell'esistenza. La Campana lo fa ogni giorno dal Colle di Miravalle, perché c'è ancora al mondo chi sta in fabbrica per più di 8 ore al giorno, molto di più. Il 1º Maggio 1886 cadeva di sabato, giornata lavorativa. Dodicimila fabbriche degli Stati Uniti si fermarono. In piazza Haymarket, a Chicago, si discuteva di dignità quando venne sperimentato un ritrovato della tecnica brevettato da meno di vent'anni, la dinamite. Un poliziotto morì sul colpo. Nel caos che ne seguì furono uccisi altri sette agenti e un numero imprecisato di civili. Condannarono all'impiccagione otto lavoratori di origine tedesca, in seguito riconosciuti innocenti. Nel 1968, dopo gli scontri di Valle Giulia, Pasolini stava con i poliziotti, perché “sono i figli dei poveri”. È un'altra storia, è vero, ma forse erano “figli di poveri” pure le vittime in divisa di Chicago, di sicuro lo erano gli operai che protestavano. Finisce che lottano tra loro persone che stanno solo cercando di vivere con dignità. Orecchie aperte alle 21.30.

A Napoli quando qualcuno è felice paga due caffè: uno per se e uno per il prossimo cliente. A volte c'è bisogno di condividere una gioia, anche con uno sconosciuto. Di solito chi arriva dopo non lo sa e paga pure lui. Però ogni tanto si affaccia qualcuno che vorrebbe proprio un caffè e non se lo può permettere: “C'è un sospeso?”. In questi giorni non solo a Napoli, dove comunque partono avvantaggiati, sono comparsi cesti pieni di generi di prima necessità, compreso il caffè. Qualcuno è appeso con una cordicella a un balcone, come quando mille anni fa le nonne calavano la cesta per tirare su la spesa. Svoltando per certi vicoli ci si può imbattere in un cartello: “Chi non ha prenda, chi ha metta”. Se sei povero è facile, prendi, ma se non lo sei, anche se non sei ricco, devi frugarti nelle tasche e capire se possiedi qualcosa di cui non hai bisogno. Si tratta in fondo di ridefinire le priorità, e su questo la Campana lavora da qualche decennio. Il vino buono piace a tutti, e se te lo sei guadagnato è anche giusto che tu te lo goda. La seconda bottiglia però si può lasciare nel cesto. Che poi in fondo è un gesto egoistico, perché l'endorfina schizza e finisce che ti senti meglio tu. Orecchie aperte alle 21.30.

Finora si emigrava principalmente alla ricerca di lavoro. L'hanno fatto i nostri nonni invadendo, non sempre pacificamente, tutta l'America e mezza Australia. Ignorando il fastidio dei locali hanno riempito il mondo di pizzerie tipiche e di cugini che non conosciamo. Qualche anno dopo abbiamo restituito il favore con lo stesso fastidio, accogliendo male migliaia di persone che a casa loro non mangiavano. Il flusso sembrava a senso unico: noi eravamo quelli ricchi che si difendevano. Ora ci si sposta per salvaguardare la propria salute. Gli stranieri scappano dalle nostre società privilegiate. Sono 200.000 i romeni tornati a casa. Più o meno gli stessi numeri descrivono la “fuga” dalla Germania. La Francia ha rimpatriato 150.000 connazionali, l'Italia 60.000. Attività professionali, studi, piadine a Berlino e Wiener Wurst a Palermo, tutto finito. Ognuno a casa sua. Non è quello che sognavamo? E gli “stranieri buoni”? Quelli che chiamavamo turisti? Via pure quelli. Un virus globale ci costringe a un'economia autarchica? Non succederà, ma «stiamo attenti con i nostri sogni, perché corrono il rischio di avverarsi», scriveva Leo Buscaglia che era nato a Los Angeles da genitori italiani. Orecchie aperte alle 21.30.

Volava come una farfalla e pungeva come un’ape. Era uno sbruffone e praticava uno sport violento. Voleva diventare campione del mondo, c'è riuscito. Non voleva andare in guerra, ha perso tutto. Qualche anno dopo è ridiventato campione del mondo. Muhammad Alì era un bullo, sfotteva gli avversari e si vantava dei soldi che guadagnava. Diceva di combattere «per la gente di colore che non può mangiare», era disposto a pagare per le sue idee. La sua generazione moriva in Vietnam, lui non era d'accordo. Il 28 aprile 1967, quando ha dichiarato pubblicamente la sua indisponibilità «ad andare a diecimila miglia da casa per aiutare a bruciare e assassinare un’altra nazione povera», i generali hanno gettato la spugna. Lui però è dovuto scendere dal ring per 4 anni. Più di un decennio prima Elvis Presley aveva sfruttato la leva obbligatoria per rifarsi un’immagine rassicurante in un'America bigotta che lo criticava per gli ancheggiamenti «peccaminosi». Scelte diverse. Non importa come canti o quanti pesi massimi metti al tappeto, c'è un giorno in cui devi decidere da che parte stai. Muhammad Alì lo ha fatto oggi, 53 anni fa. La Campana invita a farlo tutti i giorni alle 21.30. Orecchie aperte.

Certe malattie si curano, altre si inventano. Entrambi i metodi possono salvare vite. Per i virus come quello che ci tiene chiusi in casa ci vogliono un vaccino e una cura, per nascondere gli ebrei serve immaginazione e il coraggio di stare dalla parte giusta. Sull'isola Tiberina a Roma, al centro tra Trastevere e il Ghetto, c'è un ospedale. C'era già nel 1943 quando i nazisti setacciavano la città alla ricerca dei pochi scampati al rastrellamento del 16 ottobre. C'erano anche dei medici che conoscevano la natura umana, e sapevano che anche gli invasati sanguinari non aspirano a infettarsi per la patria. Quando le SS irruppero tra le corsie del Fatebenefratelli trovarono Adriano Ossicini e Giovanni Borromeo. “C'è un'epidemia, i pazienti hanno contratto il morbo K”. Le cartelle cliniche aggiungevano dettagli sugli effetti: convulsioni, paralisi, morte per asfissia. I soldati nel dubbio se ne andarono. Centinaia di malati di un morbo immaginario si salvarono. Decenni dopo, raccontandolo, Ossicini sorrideva ricordando di avere scelto la lettera “K” per sbeffeggiare Kesselring e Kappler. Provare a stare dalla parte dei perseguitati. Un consiglio che arriva ogni sera dal Colle. Orecchie aperte alle 21.30.

Il 26 aprile di cento anni fa a Sanremo al posto del festival c'era una conferenza internazionale. La grande guerra era appena finita ed erano caduti 4 imperi. Era il momento di spartirsi i territori, e una parte della torta fu tagliata nella città dei fiori. Con particolare attenzione alle zone ricche di petrolio, i vincitori concordarono l'assegnazione del mandato sulla Siria alla Francia e di quelli su Palestina e Mesopotamia alla Gran Bretagna. L'idea, tra le altre, era quella di dare spazio a «un focolare ebraico». Si voleva creare un luogo in cui potessero convivere palestinesi ed ebrei, due popoli che hanno diritto alla pace e che hanno issato da decenni la loro bandiera sul Colle di Miravalle. Dopo la proclamazione dello Stato d'Israele sono seguite 4 guerre e una crisi ancora in corso. Si possono avere le migliori intenzioni, ma non si possono decidere i destini dei popoli senza interpellarli. Non si possono nemmeno umiliare gli sconfitti, perché rischi di lasciare spazio a dittatori sanguinari che vent'anni dopo scatenano un'altra guerra. Per costruire la Pace ci vuole tempo e condivisione. Un lavoro lungo, che non mette il petrolio in cima alle priorità. Orecchie aperte alle 21.30.

Facciamo che oggi non era festa? Siamo così abituati a essere stati liberati che sembra tutto scontato, anche retorico. Tutt'al più il 25 aprile è considerata un'occasione per fissare la data del matrimonio con la sicurezza che sarà comunque vacanza ogni anno. E se non fosse così? Facciamo che non c'era stata nessuna Liberazione? Può essere un gioco, ma è anche un genere letterario. Si chiama ucronia e consiste nell'imaginare come sarebbero le nostre vite oggi se alcuni momenti chiave della storia fossero andati in modo diverso. Per esempio, il premio Nobel per la Pace Barack Obama sarebbe diventato presidente degli Usa se la battaglia di Gettysburg nel 1863 l'avessero vinta gli schiavisti del Sud? E come si chiamerebbe Corso Rosmini se avessero avuto successo le trattative avviate tra nazisti e Unione Sovietica per firmare una pace separata che escludeva gli altri belligeranti? Quella di oggi sarebbe stata una data qualunque, ma lunedì scorso probabilmente avremmo sfilato in divisa su viale Hermann Göring per celebrare il Führergeburtstag, giorno della nascita del fondatore del Reich, che nel frattempo avrebbe sostituito la Pasqua. Ogni sera la Campana ci ricorda che qualcuno è morto per evitarlo. Non è retorica, è memoria. Facciamo che oggi è festa. Orecchie aperte alle 21.30.

Quando tutti guardano in avanti, loro svicolano in diagonale. Come negli scacchi. È una propensione al pensiero laterale, alla riflessione originale, alla testardagine che non si accontenta delle risposte scontate. Si rischia di essere presi per pazzi, bruciare sul rogo, dipingere giardini di giallo o vincere il Nobel, dipende. Se sei minorenne puoi diventare Alfiere della Repubblica, come i 25 ragazzi premiati in questi giorni dal presidente Mattarella. C'è Yuliya che fa la volontaria nella Croce Rossa, Pietro che accudisce la nonna, Loris che ha ideato una cintura per non vedenti, David che spiega ai bulli che sono loro i più deboli, Elena che non sopporta le barriere architettoniche, Maria che ha aperto una biblioteca nel feudo dei Casalesi, Maria Gabriella e Federica che a Macerata e a Teramo insistono perché la ricostruzione post-sisma sia velocizzata, e c'è Mavi che ha dato un pezzo di se stessa. Mavi ha 9 anni e non ce la fa a resistere quando vede una persona senza capelli per la chemioterapia. Ha deciso che stava bene anche con un taglio sbarazzino e ha donato i suoi. Poi le è sembrato ancora poco e ha organizzato una “banca dei capelli”. Idee nuove per migliorare le cose. Gli alfieri starebbero a casa sul Colle di Miravalle. Anche Mattarella. Orecchie aperte alle 21.30.

Novak Đoković canta male, specialmente in videochat con Fiorello, e segue il festival di Sanremo (0-15). Malgrado questo ama il nostro paese e parla un buon italiano (15 pari). In questo tempo di crisi non si è limitato a lanciare slogan, ha anche elargito una donazione a un paio di ospedali (30-15). È nato in Serbia dove democrazia e diritti umani sono arrivati tardi, al termine di un lungo cammino culminato 10 anni fa con l'adesione al Memorandun della Pace. Da allora la bandiera di Belgrado sventola accanto alla Campana. Đoković non è un eroe, è solo molto bravo a giocare a tennis. Non è ancora salito al Colle (30 pari), ma sembra avere adottato anche lui il Memorandum. Sa che il merito del suo successo è assieme suo e del fato. E sa anche che quando vince dall'altra parte della rete non c'è un uomo inferiore, ma solo uno che gioca peggio, come gli atleti che non entrano tra primi 100 del mondo per i quali ha organizzato un sistema di donazioni (40-30). Un grande sportivo può dare lustro al suo paese in molti modi, anche fuori dal campo. Se tiene i piedi ben piantanti in terra, allarga un braccio per aiutare chi ne ha bisogno, colpisce i pregiudizi sui ricchi e incrocia lo sguardo dei più deboli fa un bel colpo. (Gioco, partita, incontro). Orecchie aperte alle 21.30.

C'è un gruppo di bambini con i piedi per terra che canta anche volando, soprattutto se la richiesta arriva dalla cabina di pilotaggio. Sono quelli del Minicoro di Rovereto. Qualche mese fa tornavano da Gerusalemme, e questo il comandante lo sapeva. Quello che ignorava è che avevano appena costruito un ponte tra due campane, una che suona tutte le sere a Rovereto, l'altra congelata nel porfido dall'artista di Segonzano Egidio Petri sul Monte degli Ulivi. Una stele piantata nel 2014 proprio dietro la Chiesa di Tutte le Nazioni, costruita alla fine della prima guerra mondiale con il sostegno di paesi schierati su fronti opposti. La stessa idea di Maria Dolens, ma con tre navate. Due campane, due monti, un coro, “mini” ma molto agguerrito. Dagli Ulivi a Miravalle risuonano gli stessi canti di pace. Un filo rosso teso tra due continenti, da Maria Dolens a Maria Dolens. Se continuiamo a lavorare per evitare conflitti forse non si spezzerà. I ragazzi hanno cominciato a fare la loro parte. Cantano «non è importante se non siamo grandi come le montagne, quello che conta è stare tutti insieme per aiutare chi non ce la fa». Potrebbe funzionare, intanto per una volta, come dicono loro, «si potrebbe partire dalla musica», anche volando. Orecchie aperte alle 21.30.

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