SEMINARIO ALLA CAMPANA
STRUMENTI DI CONTRASTO ALLA POVERTÀ
Il 22 giugno scorso, presso la sede della Fondazione si è tenuto un seminario, coordinato da Giuseppe Nesi, Professore di Diritto internazionale, Università degli Studi di Trento, sul tema «Obiettivo 1 dell’Agenda 2030 per uno Sviluppo Sostenibile: Strumenti di contrasto alla povertà nel diritto internazionale e nel diritto interno». Dopo un’introduzione del Reggente, l’ambasciatore Marco Marsilli, sono intervenuti per un saluto Arianna Miorandi, assessora alla Cura e al Benessere sociale del Comune di Rovereto con la competenza per la Fondazione Campana dei Caduti, e Giorgio Casagranda, presidente del Comitato Trento Capitale Europea del Volontariato 2024. Sono seguiti gli interventi dei relatori che riassumiamo in queste pagine senza la pretesa di essere esaustivi. La prima a portare il proprio contributo è stata la professoressa associata presso l’Università degli studi di Trento, Elena Fasoli, che ha parlato di povertà e cambiamenti climatici. Di seguito trovate stralci dal suo intervento. Nelle pagine 4 e 5 riepiloghiamo invece gli elementi centrali della relazione sul “land grabbing” di Mirko Camanna, dell’Erasmus University Rotterdam. Nelle pagine 6 e 7 diamo conto infine dell’approfondimento sul ruolo delle istituzioni internazionali di Chiara Tea Antoniazzi, dell’Università degli studi di Trento.
Diciassette obiettivi sono stati adottati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2015 come parte dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Essi si concentrano su sfide globali come povertà, disuguaglianza, degrado ambientale, Pace e la giustizia.
Il titolo dell’obiettivo 1 (end poverty in all its forms everywhere) suggerisce che esistono diverse forme di povertà. Il tema si può declinare anche nel contesto degli strumenti di diritto internazionale sulla lotta al cambiamento climatico. È lo stesso obiettivo 1 ad operare questa associazione quando nel traguardo 1.5 si afferma che «entro il 2030 [occorre] rinforzare la resilienza dei poveri e di coloro che si trovano in situazioni di vulnerabilità e [occorre] ridurre la loro esposizione e vulnerabilità a eventi climatici estremi, catastrofi e shock economici, sociali e ambientali».
Va precisato che non esiste una definizione né di povertà né di vulnerabilità in tali strumenti. La scienza climatica non fornisce una definizione di povertà, probabilmente anche per la necessità di mantenere aperta l’interpretazione di un fenomeno che è di per sé molto complesso, eterogeneo e multidimensionale. La condizione di vulnerabilità che si accompagna alla povertà può essere, per esempio, dovuta all’età, al genere, al contesto sociale e culturale. In ogni caso, l’attenzione è sugli individui come soggetti passivi. Inoltre, va considerato che accanto alla dimensione individuale esiste quella collettiva. Si pensi, per esempio, alla particolare vulnerabilità delle popolazioni indigene rispetto agli effetti dei cambiamenti climatici.
L’obiettivo 1 non pone l’accento solo sugli individui, ma anche sugli Stati, sempre come soggetti passivi del fenomeno cambiamento climatico. Nel target 1.a si afferma che entro il 2030 occorre «garantire una adeguata mobilitazione di risorse da diverse fonti, anche attraverso la cooperazione allo sviluppo, al fine di fornire mezzi adeguati e affidabili per i Paesi in via di sviluppo, in particolare i Paesi meno sviluppati, attuando programmi e politiche per porre fine alla povertà in tutte le sue forme».
È vero che questo specifico target non menziona i cambiamenti climatici esplicitamente, ma è proprio verso gli Stati in via di sviluppo (si pensi in particolare alle piccole isole) che si indirizzano i più importanti interventi di finanziamento delle politiche, per esempio, di adattamento.
Al momento sono allo studio di una importante Commissione delle Nazioni Unite le conseguenze sul piano giuridico dell’innalzamento del livello dei mari soprattutto per le piccole isole: per esempio, come gestire i possibili trasferimenti di intere popolazioni sul territorio di altri Stati a causa della scomparsa del proprio territorio nazionale, e quindi la necessità di visti umanitari nello Stato di accoglienza.
Quindi l’obiettivo 1, declinato in relazione al tema del cambiamento climatico, ha come oggetto la povertà e la vulnerabilità sia di individui che di Stati.
Un rapporto del 2019 dell’Onu sulla povertà estrema e i diritti umani afferma che «il cambiamento climatico minaccia il futuro dei diritti umani e rischia di annullare gli ultimi 50 anni di progressi nello sviluppo, nella salute globale e nella riduzione della povertà». Senza azioni immediate il cambiamento climatico potrebbe spingere verso la povertà 120 milioni di persone entro il 2030. Il testo sottolinea inoltre che il 75-80 per cento dei costi del cambiamento climatico verranno sostenuti dai Paesi in via di sviluppo.
A fronte di questi dati, qual è la risposta degli strumenti internazionali ambientali e, in particolare, quelli per la lotta al cambiamento climatico? Vi sono alcuni “punti di entrata” del tema della povertà nel testo dei documenti più rilevanti.
Il Rapporto Brundtland del 1987, pubblicato dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite e intitolato «Il nostro futuro comune», sostiene che l’eccessivo sfruttamento delle risorse, come il suolo, in alcune aree del mondo causa povertà. Esso afferma che esiste un circolo vizioso tra povertà che porta a degrado ambientale, e a sua volta degrado ambientale che porta a ulteriore povertà: «un mondo dove la povertà è endemica sarà sempre soggetto a catastrofi ecologiche».
Il Principio 5 della Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo del 1992 specifica che «tutti gli Stati e i popoli devono cooperare nel compito essenziale di sradicare la povertà come requisito indispensabile per lo sviluppo sostenibile, al fine di ridurre le disparità negli standard di vita e rispondere meglio ai bisogni della maggior parte delle persone nel mondo». Sempre in chiave di cooperazione internazionale, la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu n. 55/2 del 2000 chiede agli Stati di «mettere in atto tutti gli sforzi per assicurare l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto». Con tale riferimento entrano in gioco gli accordi sul clima.
Il successore del Protocollo di Kyoto è l’Accordo di Parigi e anche in quest’ultimo troviamo riferimenti al tema della povertà. Per esempio nell’obiettivo generale 2 dove è previsto che gli Stati debbano «sforzarsi» di ridurre la concentrazione di gas serra nell’atmosfera si afferma anche che questi sforzi vadano effettuati nel contesto degli «sforzi di eliminare la povertà».
In questo ambito ci muoviamo su un terreno politico molto delicato. Gli Stati sono in disaccordo sul come cooperare per raggiungere gli obiettivi. Molti Paesi ritengono che l’azione climatica debba rimanere una prerogativa discrezionale dello Stato, peraltro solo governativa, senza intromissioni da parte del potere giudiziario. In ogni caso, anche gli Stati appena citati sono concordi nel ritenere che occorra comunque porre una particolare attenzione ai Paesi più poveri e più vulnerabili.
Elena Fasoli

