MISURARE LO SVILUPPO

 

Nel 1990 l’economista pakistano Mahbub-ul-Haq, consulente speciale del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp) arrivò alla definizione dell’Indice di Sviluppo Umano (Isu). L’intento era quello di «spostare il focus dello sviluppo economico dal Prodotto interno lordo alle politiche di sviluppo incentrate sulla persona». In precedenza, usando come indicatore di riferimento il Pil pro-capite, l’attenzione dei policy-makers si concentrava esclusivamente sul valore monetario dei beni e dei servizi prodotti in un anno su un determinato territorio, ossia sulla crescita puramente economica, perdendo di vista alcuni elementi essenziali per il benessere dell’essere umano. Il Pil pro-capite ha infatti due difetti principali: innanzitutto, dato che il valore complessivo dei beni e servizi prodotti viene diviso per la popolazione, maschera l’iniqua concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi; in secondo luogo, misura solo la crescita nella produzione, senza tenere conto del capitale (umano e naturale) che viene perso nel processo. Se lo sviluppo deve essere considerato la creazione di un ambiente favorevole al pieno dispiegamento del potenziale di ciascuno, diviene indispensabile allargare l’orizzonte della ricerca, e delle misurazioni, ad altri parametri. La crescita economica, da sola, non garantisce lo sviluppo umano inteso come soddisfazione di bisogni essenziali, ampliamento di opportunità, libertà di effettuare scelte sulla propria vita.

Immediatamente dopo la sua definizione l’Isu venne recepito dall’Onu come misuratore della qualità della vita nei vari Paesi del mondo. Dal 1990 viene pubblicato, a cura dell’Undp, un «Rapporto sullo sviluppo umano» nel quale 140 Paesi vengono classificati in quattro gruppi a differente livello di sviluppo umano: molto alto, alto, medio e basso. Al fattore economico (rappresentato dal Pil pro-capite) l’Isu affianca indicatori quali l’alfabetizzazione e la speranza di vita alla nascita. L’obiettivo è misurare quali Paesi sono in grado di creare un ambiente in grado di consentire una vita più lunga, sana e creativa.

Altri indici sono stati introdotti nei vari rapporti comparsi negli ultimi tre decenni, frutto di ulteriori elaborazioni e distinzioni nei dati statistici: l’Indice di Povertà Umana (Human Poverty Index, Hpi) che descrive i casi di deprivazione delle tre dimensioni essenziali dell’Isu (economia, istruzione, salute) come la probabilità di non sopravvivenza fino a 40 anni, la presenza di analfabetismo funzionale (incapacità di usare lettura, scrittura e calcolo nella vita quotidiana), la percentuale di popolazione senz’acqua; la povertà e la disoccupazione di lungo termine (per i Paesi sviluppati); l’Indice di Sviluppo di Genere (Gender Development Index, Gdi) che misura i risultati raggiunti nelle stesse variabili, ma tenendo conto delle disuguaglianze fra uomini e donne; l’Empowerment di Genere (Gender Empowerment Index, Gei), che valuta e misura quanto le donne siano messe in condizione di partecipare attivamente alla vita economica e politica.

Negli anni i rilievi avanzati nei confronti dell’Isu, soprattutto quelli di natura tecnica, hanno consentito di migliorare le metodologie di calcolo. In particolare, l’Isu è stato “accusato” di non mettere in luce le diseguaglianze esistenti fra classi sociali o gruppi etnici all’interno di uno stesso Paese, di trascurare i diritti umani, di non contenere indicatori relativi a libertà e cultura, di non considerare la necessità di una valida dimensione ecologica. Proprio in risposta a quest’ultima critica, nel 2020 è stato aggiunto, in via sperimentale, un indice di “pressione ambientale”.

Rimane fuori di dubbio quindi la valenza politica dell’Isu: nonostante possa talora correre il rischio di nascondere più che rivelare. Anche per questo l’uso che ne hanno fatto i policy-makers è aumentato progressivamente, così come l’attenzione verso le questioni dello sviluppo umano in generale.

 

Andrea Fontemaggi

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